Il presidente ruandese Paul Kagame e il suo omologo della Repubblica Democratica del Congo, Félix Tshisekedi, hanno firmato ieri a Washington un accordo di pace alla presenza del presidente statunitense Donald Trump. L’intesa, presentata come una “svolta nei rapporti tra i due Paesi” e “un passo verso la fine di un conflitto che dura da decenni nell’est del Congo”, è il risultato di mesi di mediazione diplomatica americana e rientra nella più ampia strategia della Casa Bianca per rafforzare la propria influenza in Africa centrale e garantirsi accesso ai minerali strategici congolesi, in un contesto di crescente competizione con la Cina. All’evento hanno partecipato anche i presidenti di Angola, Burundi e Kenya, nonché i rappresentanti di Uganda e Togo, tra gli altri Paesi.
La cerimonia si è svolta presso l’edificio ribattezzato dal Dipartimento di Stato “Donald Trump Institute for Peace”. Trump ha definito l’intesa “un miracolo” e ha affermato che apre la strada a una nuova fase di cooperazione economica tra Kigali e Kinshasa. “Hanno passato molto tempo a uccidersi a vicenda, ora passeranno molto tempo ad abbracciarsi e tenersi per mano”, ha dichiarato, aggiungendo che l’accordo genererà nuove opportunità economiche per entrambe le parti.
La firma rappresenta l’ennesima iniziativa diplomatica intrapresa dal presidente americano da quando è tornato alla Casa Bianca a gennaio, dopo interventi su crisi che vanno dal Medio Oriente all’Ucraina. Un attivismo che gli ha assicurato visibilità internazionale ma che, sul fronte interno, ha alimentato critiche legate alla gestione economica e al costo della vita.
L’intesa tra Congo e Ruanda prevede tre pilastri: la cessazione delle ostilità accompagnata da un programma di disarmo e dal ritorno degli sfollati; un quadro di integrazione economica regionale; e accordi bilaterali tra Washington e ciascuno dei due Paesi per lo sfruttamento di minerali essenziali per le industrie tecnologiche, tra cui cobalto, rame e litio. Per gli Stati Uniti, l’obiettivo è ridurre la dipendenza dalle catene di approvvigionamento controllate da Pechino e attrarre nuovi investimenti occidentali nella regione.

Sul terreno, però, la realtà resta drammatica. Mentre i leader firmavano a Washington, in Sud Kivu infuriavano scontri tra i ribelli dell’M23 – sostenuti dal Ruanda secondo l’Onu – e l’esercito congolese appoggiato da milizie locali. Fonti della società civile hanno denunciato bombardamenti, case distrutte e numerose vittime, con combattimenti attivi in località come Kamanyola e Kaziba. L’M23, che afferma di difendere le comunità tutsi dell’est del Congo, controlla ampie porzioni di territorio e non è coinvolto nell’accordo firmato nella capitale americana, essendo impegnato in una mediazione parallela a Doha.
Kinshasa accusa il gruppo ribelle di violare sistematicamente il cessate il fuoco e Kigali di alimentare il conflitto. Il Ruanda nega ogni sostegno diretto, sostenendo che le proprie azioni mirano a contrastare milizie hutu responsabili di attacchi transfrontalieri. Tuttavia, un rapporto Onu pubblicato a luglio attribuisce a Kigali il comando e il controllo effettivo sull’M23.

Scetticismo arriva anche dal premio Nobel Denis Mukwege, secondo cui l’intesa risponde più alla corsa internazionale ai minerali che a un reale sforzo di pace. “Non è un accordo di pace”, ha dichiarato da Parigi. “Nel mio villaggio natale la gente seppelliva i morti mentre veniva firmato”.
Pur sottolineando le difficoltà che attendono la fase di attuazione, Kagame e Tshisekedi hanno parlato di un “nuovo percorso”. Resta però sospeso il rispetto degli impegni presi a giugno: lo smantellamento delle Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda da parte del Congo e il ritiro delle truppe ruandesi dal territorio congolese.
La regione dei Grandi Laghi continua così a essere teatro di un conflitto che dagli anni Novanta ha causato milioni di morti e nuovi sfollamenti, mentre la diplomazia internazionale tenta ancora una volta di stabilizzare un mosaico segnato da rivalità etniche, interessi economici e tensioni regionali radicate. L’accordo di Washington, celebrato con enfasi dalla Casa Bianca, appare al momento più simbolico che risolutivo: la sua efficacia dipenderà dalla capacità – e dalla volontà – delle parti di trasformare le firme in un cessate il fuoco reale e duraturo.



