Di Federico Pani – Centro studi AMIStaDeS APS
Secondo il rapporto “L’Africa Mediata 2025” di Amref Health Africa-Italia e Osservatorio di Pavia, nel 2024 la copertura mediatica dell’Africa nei media si è ulteriormente ridotta, rafforzando stereotipi e visioni distorte. Questa narrazione parziale ha effetti concreti, anche economici, alimentando sfiducia e marginalizzazione. Per cambiare rotta, servono investimenti nei media locali, pluralità di firme e un impegno condiviso per una rappresentazione più autentica del continente africano.
Secondo l’ultimo rapporto “L’Africa Mediata 2025”, presentato da Amref Health Africa-Italia in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, nel 2024 i titoli sull’Africa nelle prime pagine dei quotidiani nazionali si sono dimezzati rispetto al 2023. Anche nei telegiornali di prima serata, la presenza dell’Africa è in netto calo, mentre nei programmi di approfondimento e nei talk show la rappresentazione rimane marginale e spesso stereotipata.
La situazione appena delineata è comune anche ad altri Paesi. È il caso degli Stati Uniti dove lo scorso anno, ad esempio, il notiziario notturno della NBC ha ignorato i risultati delle elezioni sudafricane, non facendone menzione e scegliendo di concentrarsi su argomenti come la condanna per reato di Donald Trump e la morte della madre di Michelle Obama all’età di 86 anni. Lo stesso squilibrio emerge nella stampa. A settembre dello stesso anno, il New York Times ha pubblicato 35 articoli su Israele e Palestina, 24 su Russia e Ucraina, ma appena 10 articoli sull’intero continente africano. Anche in quel caso, l’attenzione era concentrata esclusivamente su disastri naturali o episodi di violenza, ignorando del tutto dinamiche politiche, economiche o sociali. Anche la guerra in Sudan che come quella in Ucraina è un conflitto lungo, prolisso e apparentemente irrisolvibile e come Gaza rappresenta una catastrofe per i diritti umani non è adeguatamente rappresentata: sul sito web del New York Times, nella categoria “Africa” non esiste una categoria speciale per la “Guerra civile sudanese” come invece avviene per la “Guerra Russia-Ucraina” e la “Guerra Israele-Hamas”, entrambe aggiornate più volte al giorno. La situazione non è diversa sulla pagina “Mondo” del Washington Post, che ha una sezione speciale per la “Guerra in Ucraina”.
A confermare la visione distorta sul continente africano contribuisce anche il gruppo giornalistico no-profit Africa No Filter nel suo primo Global Media Index sull’Africa. L’indagine, condotta su 20 testate internazionali, dalla britannica BBC alla cinese Xinhua, passando per CNN e Wall Street Journal, ha analizzato oltre 1.000 articoli pubblicati in un arco di sei mesi sulle rispettive piattaforme online. Nella categoria “diversità di argomenti”, l’indice ha riscontrato un’attenzione rivolta a violenza, disastri naturali e altri argomenti “negativi”, mentre una scarsa attenzione hanno ricevuto argomenti come cultura, arte, innovazione, tecnologia e altri aspetti positivi.
Lo studio ha inoltre rilevato che nessuna delle più importanti testate giornalistiche aveva coperto in modo costante il 100% dei 54 paesi africani e solo due, ovvero Voice of America e l’Agence France-Presse, hanno raggiunto almeno il 50%.
Stereotipi e mancanze che costano caro. La narrazione distorta dell’Africa non è solo una questione di percezione: ha ricadute concrete, anche sul piano economico. Quando un Paese è sistematicamente ritratto come fragile o pericoloso, la fiducia degli attori economici internazionali potrebbe potenzialmente vacillare. Secondo una ricerca condotta nel 2024 da Africa Practice e dall’organizzazione no-profit Africa No Filter, gli stereotipi negativi nei media internazionali costano all’Africa 3,2 miliardi di sterline all’anno. “Abbiamo sempre saputo che le persistenti narrazioni stereotipate dei media sull’Africa hanno un costo“, ha affermato Moky Makura, direttore esecutivo di Africa No Filter. “La portata di queste cifre sottolinea l’urgente necessità di sfidare gli stereotipi negativi sull’Africa e promuovere una narrazione più equilibrata“, ha poi proseguito Makura nelle parole raccolte da The Guardian.

Investire nei media può essere una delle chiavi? Uno tra i fattori chiave della scarsa rappresentazione delle voci e delle firme africane è la mancanza di investimenti nei media locali. Le aziende mediatiche africane si scontrano spesso con difficoltà finanziarie: senza finanziamenti adeguati queste non riescono a competere nella produzione di contenuti di alta qualità e competitivi a livello globale. Quando i media africani dipendono dai finanziamenti di organizzazioni internazionali, a risentirne è spesso anche la linea editoriale. Le risorse limitate costringono molte redazioni locali ad appoggiarsi alle grandi agenzie di stampa occidentali, come Reuters, AFP e AP, che raramente danno priorità alle prospettive africane. Il risultato è una copertura giornalistica superficiale, priva di sfumature, che finisce per rafforzare narrazioni esterne invece di valorizzare le voci e le complessità locali.
In questo scenario però sia i media locali africani che la diaspora stanno compiendo sforzi significativi per cambiare la narrazione sull’Africa. Attraverso diverse piattaforme, condividono storie che evidenziano la ricchezza culturale del continente, contribuendo a una percezione globale più equilibrata e più reale. Numerosi media indipendenti e piattaforme digitali africane, come OkayAfrica, Africa News, The Continente Kubwa, che offrono contenuti diversificati e autentici, spesso prodotti direttamente da giornalisti africani cercano di scardinare la gerarchia informativa globale in cui l’Africa viene ancora raccontata come “oggetto” e raramente come “soggetto”. Questi canali rappresentano strumenti fondamentali per contrastare stereotipi e disinformazione, e per amplificare storie e prospettive che raramente trovano spazio nei media tradizionali globali.
Dai miti greci come la storia di Prometeo alle fiabe europee come Hansel e Gretel, fino ai racconti popolari americani, come le avventure di Paul Bunyan, le storie occidentali sono ampiamente conosciute e amate. Le storie africane, invece, rimangono in gran parte sconosciute a livello globale. Kugali Media, con sede a Londra, una società di intrattenimento panafricana si prodiga nel raccontare storie africane sulla scena globale.
Anche il giornalismo italiano ha visto emergere nuove voci afrodiscendenti. Nell’aprile di quest’anno sul tema se n’è parlato al “International Journalism Festival” di Perugia: il panel “Le nuove voci afrodiscendenti sfidano gli stereotipi del racconto mediatico” ha cercato di definire il ruolo di chi cerca di ridefinire il panorama mediatico nel tentativo di rompere gli schemi di un settore tradizionalmente dominato da una narrazione monoculturale e composto da redazioni al cui interno mancano persone con background migratorio, non soltanto afrodiscendente.
Cambiare la rappresentazione dell’Africa nei media globali richiede un cambiamento radicale di prospettiva e un investimento costante in narrazioni autentiche, rompendo gli stereotipi, promuovendo le diverse prospettive africane e garantendo che siano gli africani stessi ad aver riconosciuti sempre più spazi per raccontare le proprie storie. Organizzazioni mediatiche, decisori politici e consumatori hanno tutti un ruolo da svolgere nel promuovere un panorama giornalistico globale plurale e rappresentativo per rispondere al paradigma culturale dentro cui opera l’industria dell’informazione.
Parallelamente, la società civile ha il compito di impegnarsi a cercare fonti di informazione affidabili, affinando la capacità di riconoscere le notizie e di richiedere visioni più giuste, contribuendo così a una rappresentazione che rispecchi realmente la complessità e la ricchezza di un continente.