di Annamaria Gallone
Presentato nella sezione Cannes Première del Festival di Cannes 2025, Orwell: 2+2=5 è il nuovo e potentissimo film documentario di Raoul Peck, regista haitiano di fama internazionale noto per il suo cinema militante e politico. Dopo aver indagato la vita e l’opera di figure cruciali come James Baldwin, Ernest Cole e Patrice Lumumba, Peck si concentra ora su George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, scrittore e pensatore britannico il cui romanzo distopico 1984 si impone ancora oggi come una delle più lucide analisi dei meccanismi di controllo e repressione del potere.
Con Orwell: 2+2=5, Peck costruisce un’opera dirompente, stratificata, dove la biografia dello scrittore britannico non è che il punto di partenza per una riflessione ben più ampia, profonda e attuale. Il film attraversa la vita di Orwell a ritroso e a balzi, abbandonando una narrazione lineare per privilegiare un approccio per suggestioni e connessioni tematiche: dalla nascita in India coloniale al servizio nella Polizia imperiale in Birmania, dalla partecipazione alla Guerra civile spagnola fino agli ultimi anni di vita, segnati dalla malattia e dalla stesura di 1984, pubblicato nel 1949.
Peck non si limita a ricostruire la vita dell’autore: ciò che lo interessa è la forza profetica del suo pensiero, la sua capacità di leggere — e prevedere — le derive autoritarie del nostro presente. Nel cuore del film, la scrittura di 1984 diventa una lente per esplorare un mondo in cui la sorveglianza di massa, la manipolazione della verità, la neolingua e la repressione del dissenso non sono più solo finzione distopica, ma realtà quotidiana.
Il film si muove come un’onda che parte dall’impatto della pietra nell’acqua — la figura di Orwell — e si propaga in cerchi concentrici sempre più ampi: il colonialismo come fondamento del capitalismo occidentale, la crisi della verità nel tempo dei “fatti alternativi”, la mistificazione storica, la censura, la propaganda. E infine, il ruolo nevralgico giocato oggi da cinema, immagini, media, social network nel plasmare — e manipolare — la percezione collettiva.
Il film si presenta come un collage febbrile, un montaggio serrato e poetico di materiali eterogenei: spezzoni cinematografici, immagini d’archivio, testimonianze, filmati di repertorio, citazioni. Peck attinge a un immaginario visivo vastissimo: dalle trasposizioni cinematografiche di 1984 (Michael Radford, Rudolph Cartier, Michael Anderson) ai film ispirati alla poetica orwelliana come Brazil di Terry Gilliam, Minority Report, Fahrenheit 451 (versione di Ramin Bahrani) e Babij Jar. Kontekst di Sergei Loznitsa. Immagini drammatiche della storia recente — come il corpo senza vita del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum — si intrecciano con riflessioni sul capitalismo della sorveglianza e sulla nuova classe dirigente tecnologica: Bezos, Musk, Zuckerberg, Altman, Pichai, fino a l’onnipresente Donald Trump, icona del populismo mediatico.
A fare da filo conduttore, la voce narrante intensa e misurata di Damian Lewis, nei panni di un Orwell morente, che riflette sul senso della verità, sul destino degli oppressi, sulla resistenza possibile.
Il film è pervaso da un senso di urgenza. Peck, intervenuto al Festival Visions du Réel, ha dichiarato:“Le parole non hanno più alcun significato. La scienza non ha più alcun significato. Non c’è verità, solo ‘fatti alternativi’. Viviamo in un mondo capovolto dove nessuno dice nulla. Siamo terrorizzati. Ecco a cosa assomiglia il terrore. Si insinua lentamente.”
E così, nel mondo che Peck racconta, la neolingua orwelliana ha trovato piena cittadinanza: “L’ignoranza è forza”, “La guerra è pace”, “La libertà è schiavitù”. Le analogie con il nostro presente sono impressionanti. Peck accosta leader sovranisti come Meloni, Orban, Milei, Trump in un crescendo di retorica nazionalista e fake news, mentre la realtà si sgretola sotto i colpi del controllo e della paura.
Peck non nasconde la sua prospettiva: è militante, dichiaratamente politica, a tratti radicale. Per alcuni potrà risultare retorico, ma la veemenza non compromette la lucidità dell’analisi. Anzi, è proprio nella forza emotiva e nella rabbia — sempre controllata — che risiede l’autenticità del suo cinema. La sua opera non si limita a denunciare, ma cerca di disinnescare i miti della narrazione dominante, di smascherare il meccanismo del potere.
In uno dei momenti più controversi, il regista associa la parola “antisemitismo” all’uso strumentale che ne farebbe il premier israeliano Benjamin Netanyahu, suggerendo che la si impieghi per giustificare politiche aggressive verso il popolo palestinese. Una provocazione forte, coerente con la tensione critica che attraversa tutto il film.
Orwell: 2+2=5 è molto più di un documentario biografico: è un’opera visiva complessa, un pamphlet cinematografico, un grido d’allarme. Raoul Peck restituisce Orwell al presente e mostra quanto i suoi avvertimenti non fossero semplice immaginazione distopica, ma un disegno profetico della realtà contemporanea.
Alla proiezione nella sala Debussy, gremita fino all’ultimo posto, il film è stato accolto da una standing ovation di quasi 20 minuti. Una risposta emotiva e politica a un’opera che, senza mezzi termini, ci ricorda che la verità è il primo campo di battaglia del potere. E che oggi, forse più che mai, leggere — e vedere — Orwell è un atto di resistenza