di Michele Vollaro
Alla Quarta Conferenza sul Finanziamento dello Sviluppo a Siviglia, si è scontrata la diplomazia ufficiale con la voce accesa della società civile, in particolare africana, che ha chiesto a gran voce una riforma radicale del sistema finanziario globale.
(da Siviglia) Fuori, il caldo torrido di un’estate andalusa che fa vibrare l’aria, svuotando le strade e spingendo a cercare l’ombra nei vicoli. Dentro, l’aria condizionata che ronza nei padiglioni asettici del centro congressi Fibes affollati da oltre diecimila delegati provenienti da ogni angolo del globo. Per quattro, la Quarta Conferenza sul finanziamento dello sviluppo (FfD4), svoltasi a Siviglia, ha vissuto di questo contrasto. Da un lato, il mondo della diplomazia, dei comunicati ufficiali, delle soluzioni tecniche e pragmatiche. Dall’altro, la voce appassionata e frustrata della società civile internazionale e africana, che domenica scorsa ha visto migliaia tra attivisti e cittadini marciare per le strade del capoluogo della regione più meridionale della Spagna per denunciare un sistema che, dicono, ha tradito le sue promesse. “Questo non è un vertice sulla mancanza di denaro, perché il mondo non è mai stato così ricco – ha tuonato Tove Ryding della della Rete europea su debito e sviluppo (Eurodad) durante una conferenza stampa -. È un vertice sulla mancanza di giustizia economica”.
Il costo umano di un sistema “rotto”
Per tutta la durata del vertice, dai discorsi inaugurali al bilancio finale, la diagnosi della crisi è stata unanime e impietosa. È stato il Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, a definire il quadro fin dal primo giorno: “La finanza è il motore dello sviluppo, e in questo momento quel motore si sta spegnendo”.
Una crisi che non è fatta solo di numeri – come il crollo degli investimenti per gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) certificato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) – ma soprattutto di vite umane. La realtà, come ha ricordato la Vice-segretaria generale dell’Onu, Amina Mohamed (foto di apertura), nel suo intervento conclusivo, è che “3,4 miliardi di persone vivono in Paesi che spendono più per il servizio del debito che per la sanità o l’istruzione”.
È questa la ferita aperta su cui si è innestata la spinta africana per una riforma radicale del sistema, un’offensiva politica basata su richieste chiare e presentata a Siviglia con una forza senza precedenti. Una frustrazione a cui l’ex ministro delle Finanze sudafricano, Trevor Manuel, ha dato una voce quasi poetica, citando Nelson Mandela: “Spendere per il servizio del debito significa spendere per ieri; la democrazia è spendere per domani”.

Le richieste dell’Africa e un compromesso anomalo
Questa spinta si è concretizzata in una piattaforma di riforme tanto ambiziosa quanto strategica, articolata da Unione Africana e Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite (Uneca). Non una semplice richiesta di aiuti, ma un appello per un “nuovo contratto finanziario globale” basato su tre pilastri: una riforma della governance di Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale; una Convenzione fiscale a guida Onu per combattere gli 89 miliardi di dollari persi ogni anno in flussi illeciti; e una Convenzione quadro vincolante sul debito sovrano.
La vera particolarità di questo vertice è che il documento finale, il Compromiso de Sevilla (‘Impegno di Siviglia’, in italiano), era già stato approvato per consenso a New York due settimane prima dell’inizio dei lavori, un fatto tutt’altro che scontato. Questo consenso, tuttavia, è stato il risultato di un negoziato teso che ha visto la spinta del G77 scontrarsi con la resistenza dei Paesi del Nord globale. Il clamoroso ritiro di Washington dalla fase finale ha paradossalmente sbloccato lo stallo, permettendo a Paesi europei, Gran Bretagna, Canada e G77 di trovare un terreno comune. Il risultato è un documento di compromesso: se sulla fiscalità il processo Onu va avanti, sul debito la richiesta di una Convenzione vincolante è stata sostituita da un più morbido “processo intergovernativo per esplorare opzioni”.
Le “false narrazioni” dei debt swap
Proprio su questo punto si è concentrata la critica più dura della società civile, specialmente dopo che la presidenza spagnola e la Banca Mondiale hanno lanciato un “Hub globale per i Debt Swaps (‘Conversioni del debito’, in italiano)” come una delle soluzioni di punta della conferenza. E che invece, secondo Jason Rosario Braganza della Rete e forum africano su debito e sviluppo (Afrodad) vanno etichettate come “false narrazioni, perché non ci sono prove che questi strumenti funzionino in modo trasformativo”. Per il MenaFem Movement for Economic, Development & Ecological Justice, quest’attenzione sulla conversione del debito non è una causa di celebrazione, ma “un segnale che il sistema finanziario globale resta intrappolato nella stessa logica coloniale”. In un editoriale durissimo, hanno definito i debt swap non soluzioni strutturali, ma “strumenti di gestione che mantengono il potere dei creditori offrendo un sollievo minimo e il massimo controllo”. Sarebbero “fiscalmente insignificanti”, spesso cancellando meno dell’1% del debito, e “una distrazione” che evita di affrontare la vera domanda: “Perché i Paesi del Sud del mondo si indebitano a tassi di interesse cinque volte superiori a quelli dei Paesi ricchi?”.
Un futuro da scrivere
L’eredità di Siviglia è dunque complessa. Se da un lato ha dimostrato la vitalità di un multilateralismo di “coalizioni di volenterosi” capace di lanciare iniziative concrete, dall’altro ha lasciato delusi coloro che speravano in una rivoluzione delle regole. Eppure, è proprio in questa tensione che si intravede un cambiamento di paradigma più profondo. Un cambiamento non solo di meccanismi finanziari, ma di immaginario e di narrazione.
Una visione ben riassunta dalle parole di Ndidi Okonkwo Nwuneli, attuale presidente di ONE Campaign, che in uno degli eventi più significativi sull’agroalimentare ha dichiarato: “Il volto dell’Africa non è un bambino affamato, ma un’imprenditrice agricola di successo”. È per dare a questa nuova Africa gli strumenti per competere ad armi pari che il continente ha portato le sue istanze a Siviglia. La spinta per quel “nuovo contratto finanziario globale” che l’Africa è venuta a chiedere non si è esaurita tra i padiglioni andalusi. Ha solo concluso un primo, fondamentale capitolo.