di Marco Aime
Quanto vale per il turista una foto? Quale bagaglio di narcisismo, stupore, invidia, si trascina dietro quell’immagine, che verrà mostrata, per costruire o rafforzare la propria identità di viaggiatore? La riflessione dell’antropologo Marco Aime.
Dopo alcune settimane che soggiornavo nel villaggio Taneka di Seseirhà (Benin), un uomo venne a chiedermi, cosa facevo lì: «Si vede che non sei un turista perché sei qui da troppo tempo e non fai fotografie». Fretta e scatti fotografici diventano gli elementi che segnano il turista. Lo scambio sociale si basa sulla premessa di una continuità. L’incontro tra fotografo e fotografato dura da pochi secondi a una manciata di minuti al massimo. Il poco tempo spinge alla creazione dello stereotipo, da parte dei locali, del turista come fotografo.
I giovani taneka, in alcune loro danze utilizzano macchine fotografiche, costruite con lattine di ricupero e fingono di immortalare i presenti. Allo stesso modo i giovani betammari-be, altro gruppo del Benin settentrionale, impugnano un cranio di animale e lo usano per “fotografare” la gente, urlando, dopo ogni scatto: «Ora sei qui dentro!». In passato tra le maschere dogon ne compariva una che chiedeva soldi e lasciava una sorta di ricevuta: era l’amministratore coloniale che riscuoteva le imposte. Oggi la stessa maschera ha una macchina fotografica di legno e finge di fotografare i turisti.

I Mursi sono una popolazione che vive nell’Etiopia meridionale. Libri, guide e documentari ci hanno spesso mostrato le donne mursi, con i loro grossi piattelli labiali e gli uomini i cui corpi nudi vengono dipinti con disegni di caolino. Le immagini pubblicate esprimono, come in molti altri casi, una certa purezza di vita che rimanda a un mondo incontaminato. Appena giunti in un villaggio mursi, si viene accolti da qualche locale, che dopo avere salutato i turisti, pone una regola chiara: «One shot X birr». Il birr è la moneta locale e ogni scatto deve essere pagato. Chi arriva senza macchina fotografica è malvisto dai locali: da potenziale fonte di reddito si trasforma immediatamente in seccatura. In molti casi è proprio tramite la macchina fotografica, che il turista definisce la realtà, oggettivando gli altri, ma finisce poi per oggettivare sé stesso: il turista è una macchina fotografica.
Chi si reca tra i Mursi, paga per portare a casa la prova inconfutabile di essere stato davvero dai «primitivi», le cui donne hanno le labbra deformate dai piattelli labiali. Quei dischi di terracotta al labbro delle donne sono ciò che i turisti vogliono immortalare, è per quello che sono venuti, perché per il turista sono la sopravvivenza di un mondo “primitivo” dove lui è stato. Per questo paga malvolentieri, deluso dalla purezza perduta di quelle genti, che vede come primitivi, che vorrebbe intatti, ma che gli impongono ferree leggi di mercato.
Quanto vale per il turista una foto? Quale bagaglio di narcisismo, stupore, invidia, si trascina dietro quell’immagine, che verrà mostrata, per costruire o rafforzare la propria identità di viaggiatore? Il sempre maggiore afflusso di turisti fotografanti ha indotto i Mursi, come i nativi di molte altre regioni del mondo, a pensare che essi possiedono qualcosa di valore che interessa i turisti. Per questo ritengono giusto che questa cosa venga loro pagata.
Siamo abituati a pensarci al “centro”, ma quando si va nella terra dei Mursi, perdiamo la nostra «centralità» sia geografica sia umana. Non siamo più noi a fare le regole, altri ce le impongono. E ciò che forse ci stupisce di più è che sono proprio le nostre stesse regole: le leggi del mercato, che stabiliscono il prezzo in base alla scarsità della merce.
I Mursi sono unici e forse lo sanno, grazie anche al fatto che molte persone spendono soldi e tempo e sopportano disagi per andarli a fotografare. Sanno che abbiamo bisogno di loro, dei loro corpi statuari, disegnati, per poter dire di essere stati «là». Per leggere sui volti deformati delle loro donne, sulle cicatrici della loro pelle una nostra idea di storia, per convincerci del passato dell’umanità. Abbiamo bisogno di loro per stupirci in un mondo dove tutto sembra essere una seconda visione di qualcosa di vecchio e noioso.
Il turista fa spesso il moralista, talvolta si indigna alla richiesta di denaro per le foto, perché ha delegato a queste genti il compito di conservare intatta la purezza delle tradizioni, che noi abbiamo abbandonato. Lui, attore e coautore della civiltà dell’immagine, si inalbera se qualcun altro accetta il gioco e si mette pure lui sul mercato e lo fa in un regime di monopolio.
Non chiediamo forse soldi, noi, per fare ammirare le opere del nostro patrimonio artistico? I mursi i loro beni culturali se li portano addosso, ma forse ci si indigna perché quei corpi neri e opachi non ci riflettono. Per quanto ci sforziamo di essere aperti, democratici e relativisti, non ci riesce di vedere in loro uomini come noi, capaci di fare i loro calcoli e i loro interessi, sfruttando i nostri bisogni per soddisfare i loro.
«L’occhio dello straniero vede solo ciò che già conosce» recita un proverbio africano. Quante volte, nelle proiezioni di amici reduci da un viaggio in un paese esotico, abbiamo visto immagini di gente stracciata, vestita all’occidentale o seduta davanti alla televisione intenta a guardare onnipresenti telenovelas? Le fotografie che vediamo (e scattiamo) assomigliano molto di più a quelle viste sui cataloghi che abbiamo sfogliato prima di partire. Il turismo induce memoria e in un certo modo si appropria della memoria di altri. Così molte delle immagini che consumiamo visivamente sono in realtà il ricordo fissato nella memoria di altri, che successivamente viene consumato da noi.


