di Stefano Pancera
Ogni anno 88 miliardi di dollari lasciano illegalmente l’Africa, più degli aiuti allo sviluppo ricevuti. Una perdita silenziosa che alimenta corruzione, evasione e riciclaggio.
Non fanno rumore, non esplodono come una crisi, ma agiscono ogni giorno. Si chiamano flussi finanziari illeciti.
Dietro queste tre lettere si nasconde una verità brutale: in Africa esiste da tempo una gigantesca fonte di capitali che, invece di essere destinata a finanziare scuole, ospedali e strade, prende il volo verso paradisi fiscali e conti offshore.
E non si tratta solo di semplice evasione fiscale. I flussi illeciti alimentano anche riciclaggio di denaro, corruzione, terrorismo. È un’economia parallela che si muove sotto traccia, sfuggendo a ogni controllo.
A rilanciare l’allarme su un fenomeno radicato e ben noto da decenni è stato un recente rapporto dell’Unione Africana (UA), secondo cui ogni anno escono illegalmente dal continente ben 88 miliardi di dollari, più di tutti gli “aiuti” pubblici allo sviluppo destinati all’Africa nel 2023 (stimati in circa 70 miliardi di dollari).
“Anche nei paesi con severi controlli bancari persistono le scappatoie”, si legge nel rapporto, che cita tra gli altri Etiopia e Tunisia, dove i circuiti illegali cosiddetti “informali” sembrano bypassare le istituzioni. L’impatto è pesante: il 3,7% del PIL africano viene risucchiato ogni anno da questo vortice.
Alla base c’è un arsenale di stratagemmi fiscali che trasformano illeciti in ingegno contabile. Alcune multinazionali, soprattutto nel settore minerario, sono maestre di queste acrobazie: presentano fatture false, dichiarano valori inferiori per pagare meno tasse (sotto-fatturazione) o gonfiano i costi d’importazione (sovra-fatturazione) per giustificare l’uscita di denaro dal continente. Le società minerarie sono le più esperte nell’arte dell’elusione fiscale. Il settore estrattivo rappresenta quasi il 50% di questi flussi.

Professionisti del diritto, consulenti fiscali, agenti immobiliari, istituti bancari, agirebbero come “facilitatori”. Talvolta operano in modo passivo (non verificando a sufficienza), altre volte con una connivenza attiva, permettendo di strutturare i passaggi necessari affinché la ricchezza illecita diventi invisibile e stabile all’estero.
Il percorso del denaro è sempre lo stesso: conti correnti aperti a nome di prestanome, trasferimenti rapidissimi tra banche e Paesi diversi, fino a trasformare fondi illeciti in investimenti immobiliari o commerciali apparentemente legittimi. Il problema ovviamente non è tecnico ma è politico. Nella sua denuncia l’UA rileva un aumento del 76% di FFI rispetto all’ultima analisi ufficiale precedente, che risale al 2015, quando la cifra stimata era di circa 50 miliardi di dollari.
Célestin Monga, noto accademico camerunese e professore di economia ad Harvard, ex vicepresidente della Banca africana di sviluppo e consulente economico della Banca mondiale, afferma in un’intervista al quotidiano francese Le Monde:
“Dovremmo cercare i colpevoli nelle élite africane che, sessantacinque anni dopo l’indipendenza, subappaltano le loro responsabilità a governi stranieri. È così che si promuove un’industria di miseria e di carità. A scapito delle istituzioni internazionali, i Paesi africani offrono pochissime strategie di trasformazione credibili, e quindi pochissimi programmi che possono attrarre finanziamenti. Trovano semplicemente denaro per pagare i dipendenti pubblici e i militari ogni mese, e non stanno sviluppando l’economia che amplierebbe la base imponibile, genererebbe entrate di bilancio e si libererebbe dalla dittatura della pietà imposta da Washington”.

Un rapporto di Transparency International, “How Enablers Facilitate Illicit Financial Flows from Africa” (“Come i facilitatori agevolano i flussi finanziari illeciti dall’Africa”), conferma che in almeno 78 casi, in 33 Paesi africani, sono coinvolte persone politicamente esposte che hanno utilizzato la loro posizione per trasferire proventi di corruzione all’estero o occultare ricchezza in paradisi fiscali.
Lo Zimbabwe è un caso emblematico perché riassume in piccolo l’intero problema africano dei flussi finanziari illeciti: ricchezze naturali enormi, istituzioni deboli e connivenze che permettono a capitali giganteschi di uscire senza lasciare traccia. Secondo le autorità, ogni anno decine di milioni di dollari spariscono senza passare dal fisco.
Stando al quotidiano Lefaso.net in Burkina Faso, tra il 2012 e il 2021, il 18,28% delle entrate minerarie si è volatilizzato verso altri lidi e tra il 2014 e il 2019 mancherebbero all’appello 39 tonnellate d’oro.
Lo scandalo Credit Suisse Leaks, noto anche come Suisse Secrets — un’inchiesta del 2022 condotta da oltre 40 testate giornalistiche — ha rivelato che migliaia di conti correnti, inclusi quelli provenienti da Paesi africani ricchi di risorse naturali come Angola, Repubblica Democratica del Congo, Nigeria, Sudafrica ed Egitto, sono stati utilizzati per custodire ingenti fortune, spesso sottratte ai rispettivi Stati.
Se le élite politiche e finanziarie sono parte integrante del problema, diventano anche il punto chiave per la soluzione. Finché una parte dell’élite continuerà a costruire la propria gloria sul silenzio delle banche, sul segreto delle società offshore e sul compromesso dei controllori interni, le promesse di sviluppo rischiano di restare impigliate per sempre in una fitta trama di interessi opachi.


