di Bruno Zanzottera
Nato dal sogno di un gruppo di volontari italiani, sulla costa sud-occidentale dell’Isola Rossa sorge l’Hopitaly Vezo. Fra una terra di struggente bellezza e una popolazione di pescatori in simbiosi con il mare, il presidio offre cure gratuite in un’area remota dove è più sottile il confine tra vita e morte.
«Un giorno arriva in ospedale un giovane pescatore con un amo da pesca conficcato nel labbro. I tentativi di rimuoverlo con un bisturi, e successivamente con una pinza, si rivelano inutili. Alla fine, decidiamo di chiamare il factotum locale dell’ospedale, che risolve il problema tranciando l’amo con una smerigliatrice, senza anestesia. Mi sono immaginata i volti esterrefatti dei miei colleghi dell’ospedale di Bolzano di fronte a una scena simile». Sono le parole di Lisa, giovane infermiera altoatesina alla sua prima esperienza di volontariato in un ospedale africano. Ci troviamo all’Hopitaly Vezo, un piccolo ospedale sulla costa sud-occidentale del Madagascar, in una terra di struggente bellezza abitata principalmente dai Vezo, una popolazione di pescatori.
Per raggiungerlo, ho iniziato il mio viaggio dalla capitale Antananarivo — o Tanà, come la chiamano tutti — prendendo un volo verso sud-ovest a destinazione di Toliara. Nonostante sia il principale porto del Madagascar meridionale, con i suoi poco più di centomila abitanti Toliara colpisce per l’assenza quasi totale di auto private. In un’Africa urbana sempre più congestionata dal traffico, qui la popolazione si sposta principalmente in risciò a pedali, un mezzo che richiama le origini asiatiche dei primi abitanti dell’isola. Da Toliara ad Andavadoaka, il villaggio dove sorge l’ospedale, ci sono 180 chilometri, percorribili solo con un fuoristrada in circa sette ore. La pista sabbiosa si snoda attraverso villaggi di pescatori con capanne affacciate su un mare turchese e una foresta di arbusti spinosi, punteggiata dalle imponenti sagome dei baobab. Siamo in una regione isolata, priva di infrastrutture, dove la vita è scandita dal mare. Gli abitanti vivono di pesca, trascorrendo le giornate a bordo delle loro semplici piroghe a bilanciere e vela quadrata, simili a quelle utilizzate dai primi colonizzatori indonesiani e malesi.

In questo angolo sperduto del Madagascar, agli inizi degli anni Duemila un gruppo di amici, tra cui un medico bolognese, decide di costruire un resort. La presenza di un dottore si diffonde velocemente tra la popolazione locale, in evidenti condizioni di necessità sanitarie, anche a causa della lontananza da qualsiasi ospedale o presidio medico. In poco tempo il numero di persone che hanno bisogno non solo di consulti medici, ma di veri e propri interventi, si fa sempre più rilevante. Il gruppo di amici decide così di fondare l’Associazione Amici di Ampasilava, dal nome del villaggio dove volevano erigere il resort, al fine di trovare fondi per la costruzione di un vero e proprio ospedale, dopo che nei primi anni era stato realizzato un piccolo ambulatorio, dotato di un microscopio, un elettrocardiografo, un defibrillatore e poche altre attrezzature.
L’ospedale, inaugurato nel 2008 su un terreno donato dalla comunità locale, porta il nome dei Vezo, popolo di pescatori che rappresenta un enigma antropologico (v. Africa 4/2023). «Vezo non si è, lo si diventa», scrive l’antropologo Alberto Salza. Non un’etnia, ma una condizione: “uomini del pesce”, o “uomini in lotta con il mare”. Perciò, chiunque viva su questo tratto di costa, dedito alla pesca in simbiosi con il mare, può essere definito Vezo. «Le teorie dell’etnicità si basano sull’assunto che le persone sono come sono in quanto nate per essere così»,argomenta Salza. «La biologia della parentela (il “sangue”) e la cultura tradizionale (“naturalizzata” tramite il linguaggio e la storia condivisa) sono alla base delle etnie, in quanto caratteristiche dell’essere. Vezo, invece, non si è: lo si diventa». Se gli uomini passano le loro giornate sulle piroghe, le donne, accompagnate dalle figlie, sfruttano la bassa marea per raccogliere ricci, cetrioli di mare e molluschi sulla barriera corallina.

Oggi, alcuni Vezo, abbandonata la pesca, lavorano in ospedale. Devi, per esempio, ha iniziato come mediatore culturale e ora è infermiere, mentre Oden lavora in radiologia e farmacia sotto la supervisione di Michele, il direttore sanitario. La pandemia da covid-19 ha accelerato la formazione di professionisti locali, come Brando, giovane medico di Tanà, laureato nel 2021 e ora impegnato anche in sala operatoria. Vito, l’attuale presidente dell’associazione, riferisce che l’ospedale impiega 25 locali e fino a 24 volontari italiani, offrendo dalla sua apertura ad oggi cure gratuite a oltre 310.000 persone in un territorio di 200 chilometri quadrati. «È un ospedale voluto dalla popolazione malgascia e oggi fa parte della rete sanitaria nazionale», spiega.

Vite che sbocciano
La pediatria è uno dei reparti più attivi. Vi arrivano giorno e notte pazienti prossime al parto, che hanno percorso decine di chilometri, a volte a bordo di carretti trainati da buoi. Sono accompagnate da uno stuolo di donne della famiglia che le accudiscono, sia durante il parto che nei giorni successivi, stando spesso sdraiate a terra accanto al letto della neomamma, occupandosi dei bisogni primari come il cibo e passando il resto del tempo in chiacchiere tra donne. «Ho visto ragazzine partorire senza un lamento», racconta Loredana, ostetrica alla sua terza esperienza all’Hopitaly Vezo. «Qui il confine tra vita e morte è sottile, vissuto con rispetto e dignità». Questa convivenza con la morte colpisce i volontari venuti dall’Italia: «Vita, morte e malattia sono concetti relativi. Qui si fanno ancora viaggi della speranza per ricevere una confezione di paracetamolo o di protettore gastrico», scrive nel suo diario Omar, un giovane medico triestino venuto ad Andavadoaka con la moglie Mariachiara, ginecologa. Entrambi hanno già vissuto un’esperienza di volontariato in Angola, ma questa volta hanno scelto di consacrarvi il loro viaggio di nozze, ricevendo in cambio un intenso rapporto di condivisione con la popolazione locale. «Il villaggio è isolato, ma aperto al mondo», annota Omar. «La brousse regala alberi spinosi e sabbia nelle scarpe. Il Dada e il Flash (i due bar del villaggio) ci regalano ritmi africani e incroci di gambe spasmodici. Cappelli bucati, vestiti laceri. Bucati sono i denti che spesso hanno finestre che ridono. Difficile trovare continuità e simmetria. Il discontinuo è l’imprevedibile, che a sua volta è il quotidiano».

I volontari passano solitamente un mese all’ospedale, il tempo minimo di permanenza per potersi ambientare e risultare utili nelle loro attività professionali. «Ma Il tempo scorre veloce come la sabbia della spiaggia tra le dita. Una sabbia fatta di minuscole schegge di conchiglie e mondi infiniti. Il mare riempie la pancia e forse anche i momenti bui». Al ritorno, rimane il senso di impotenza e di rabbia di fronte alle disuguaglianze, ma anche la voglia di rimettersi in gioco. «Noi abbiamo il superfluo, l’accanimento terapeutico anche contro le leggi della natura; in questi contesti l’accesso alle cure è un lusso per pochi», considera Loredana. «Ma, nonostante la fatica e i conflitti interiori che si scatenano, il desiderio di tornare è sempre forte».
Questo articolo è uscito sul numero 3/2025 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.


