di Uoldelul Chelati Dirar
Nuova tappa del nostro viaggio nella memoria: l’Istituto Agronomico d’Oltremare, nato per sostenere il colonialismo italiano, ha costruito un vasto archivio tecnico e scientifico. La sua storia rivela la continuità delle logiche coloniali nelle politiche postcoloniali, lasciando un’eredità preziosa e ambigua.
L’istituto Agronomico d’Oltremare fu fondato nel 1904 con il nome di Istituto Agricolo Coloniale italiano. Il suo mandato era di promuovere lo studio dell’agricoltura tropicale e dell’ecosistema in cui essa si sviluppava. In tal senso l’Istituto, analogamente a quanto svolto da coevi istituti coloniali in Europa, svolgeva un ruolo fondamentale nella “missione civilizzatrice”. Le sue competenze scientifiche e conoscenze ne facevano un attore primario nella cosiddetta “valorizzazione” (ovvero pieno sfruttamento) delle risorse africane.
Nei primi vent’anni, grazie a un’enorme opera di raccolta dati e di produzione di pubblicazioni scientifiche, contribuì alla mappatura articolata delle risorse naturali e delle potenzialità di sfruttamento agricolo delle colonie italiane. L’attività si è poi intensificata con l’avvento del fascismo in quanto la nuova enfasi posta dal regime sulla politica di colonialismo demografico richiedeva una più intensa attività di assistenza alla sperimentazione produttiva nelle colonie nonché la partecipazione diretta all’elaborazione di progetti di colonizzazione agricola, alla formazione e al trasferimento di conoscenze ai coloni. Contestualmente, nel 1938, l’istituto prese il nome di Istituto agronomico per l’Africa Italiana.
Figura centrale fu Armando Maugini, direttore dal 1924 al 1964. Sotto la sua guida l’Istituto, oltre a contribuire attivamente al processo di colonizzazione si è allo stesso tempo costituito in un immenso archivio, grazie alla vasta documentazione scritta e fotografica, nonché alla creazione di collezioni di prodotti agricoli, piante e altri reperti, utilizzati nell’opera di formazione e di divulgazione. La centralità e l’intensità del contributo dell’Istituto al processo coloniale è anche attestata dal fatto che, nel 1941, fu ritenuto necessario costruire una nuova e più capiente sede su progetto dell’ingegnere Aurelio Ghersi. La perdita delle colonie e la fine del fascismo imposero un cambio di direzione. Maugini, esempio emblematico di continuità tra Italia fascista e repubblicana, mantenne la direzione e guidò l’istituto nel supporto all’Amministrazione fiduciaria della Somalia (1950-1960). Parallelamente, l’istituto fornì assistenza ai coloni italiani in America Latina. Nel 1959 cambiò nome in Istituto Agronomico d’Oltremare e passò sotto il ministero degli Esteri.
Concluse le esperienze somala e latinoamericana, dagli anni Settanta trovò un nuovo ruolo nella cooperazione allo sviluppo. Sotto la direzione di Alice Perlini (1997-2009) tentò di rinnovare la propria identità, aprendo alle organizzazioni della società civile e alla cooperazione decentrata. Nel 2015 è stato soppresso e assorbito dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. La sua lunga parabola riflette la complessità delle politiche coloniali e le loro persistenze in età postcoloniale. L’istituto è stato un attore centrale nella diffusione di nozioni di modernità e sviluppo in contesti ritenuti arretrati, sostenendo l’inserimento forzato delle economie africane nel mercato globale. La fine del dominio coloniale non ha cancellato questo paradigma: lo dimostrano la permanenza in ruoli apicali di figure come Maugini e l’assenza di una riflessione critica sull’idea stessa di sviluppo. Oggi, per studiosi e attivisti, l’istituto rappresenta un prezioso archivio, utile a decifrare il progetto coloniale italiano e le sue eredità. Allo stesso tempo, le sue mappature e analisi tecniche restano risorse consultate da operatori e governi delle ex colonie, in cerca di strumenti per guidare le loro scelte politiche e territoriali.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.


