Il dilemma di Zanzibar

di claudia

di Stefano Pancera

Zanzibar cambia volto: un aeroporto tutto nuovo, resort di lusso e grattacieli futuristici puntano a trasformarla nella Dubai dell’Africa orientale. Ma tra crescita del turismo e frenesia edilizia, l’isola rischia di perdersi. Mentre il governo promuove investimenti milionari, la popolazione s’interroga.

Decine di duty free dai colori vivaci, bar futuristici dal design minimalista, display luminosi che si intrecciano nei pavimenti e, in cima a tutto, un gigantesco ledwall che ti accoglie con un fragoroso «Welcome to Zanzibar!». Il nuovo Karume International Airport sfoggia un volto tecnologico che crea un effetto straniante, come un salto nel futuro. Eppure, solo pochi anni fa, era poco più di un capannone di legno e lamiera, dove i numeri dei voli venivano cancellati a mano su una lavagna consunta con un semplice colpo di spugna degli addetti.

Zanzibar è una terra di contrasti, che incanta e confonde. Unguja, l’isola principale, è quella che tutti conoscono come Zanzibar, ma l’arcipelago include anche Pemba e una quarantina di altri isolotti. Un tempo meta privilegiata dei backpackers, i giovani con lo zaino in spalla, oggi mira a diventare una destinazione d’élite per il turismo di lusso. Zanzibar è ormai un marchio, un’icona globale. Nel 2024, l’isola ha accolto quasi 750.000 visitatori (+15% rispetto al 2023), un numero che resta esiguo se confrontato con altri arcipelaghi turistici, come Mauritius, di poco più grande, che ha superato 1,3 milioni di turisti.

Gli italiani sono i più numerosi, seguiti da francesi, polacchi e tedeschi, ma negli ultimi anni si iniziano a vedere anche giovani coppie provenienti da Nigeria e Sudafrica. «Vogliamo diversificare i flussi turistici e aprirci a mercati come Cina, Singapore e India», ha recentemente dichiarato Aboud Suleiman Jumbe, ministro del Turismo di Zanzibar. Ma l’isola resta sospesa tra lo sfarzo dei resort “tutto compreso” e la povertà delle baracche di lamiera, come spiega Michela Ferrati, che con il marito zanzibarino gestisce dei bungalow e un bar su una spiaggia incontaminata, lontano dagli all-inclusive. «I miei figli sono nati qui, perciò vedo questa espansione con sentimenti contrastanti. Se da un lato porta risorse e opportunità, dall’altro la vera sfida sarà preservare l’autenticità dell’isola. Troppi turisti arrivano senza sapere nulla del mix culturale bantu e arabo che rende Zanzibar unica. Basta osservare il comportamento a Stone Town».

Turisti e morale islamica

La capitale che per secoli è stata fulcro del commercio di spezie e di schiavi è un mosaico di storia. Gli alti palazzi addossati l’uno sull’altro fatti di pietra corallina e legno di mangrovia in tipico stile swahili offrono protezione dal sole e dal vento. I vivaci bazar in cui perdersi e i richiami alla preghiera dei muezzin che riecheggiano tra i minareti raccontano storie di mercanti e sultani. È tra questi vicoli intrecciati come fili di shanghai, odorosi di pesce, di carne e di spezie, che gruppi di turiste in short o in bikini sfidano la sensibilità locale. L’imbarazzo è palpabile: tra l’euforia dei vacanzieri e la cultura islamica dominante, l’aria è carica di tensione. Nonostante le multe previste per chi non rispetta il decoro, sono ancora pochi gli zanzibarini che se la sentono di rimproverare i turisti. Gli anziani, nascosti nelle ombre dei retrobottega, percepiscono ancora una volta l’arroganza dei wazungu, i bianchi a passeggio.

«Non è una questione di integralismo religioso, ma di pudore e decenza. Vedere una ragazza che gira qui in centro quasi come fosse nel bagno di casa sua è imbarazzante e irrispettoso. Ogni tanto glielo dico: mettetevi almeno un pareo e copritevi le spalle!», racconta uno dei tanti giocatori di bao (gioco da tavolo locale) che popolano la piazzetta del “Jaws Corner”, il punto di ritrovo di Stone Town preferito dalla comunità locale. Qui, soprattutto al mattino, gli uomini si riuniscono per condividere insieme il caffè nero tradizionale, aromatizzato con un tocco di zenzero. Più comprensivi appaiono i giovani locali, che si danno appuntamento al tramonto sul lungomare dei giardini di Forodhani, sfidandosi con i loro stilosituffi acrobatici. «È vero, alcune donne esagerano, ma sono una minoranza. Per noi, però, la situazione è migliorata: c’è più lavoro per tutti», dice un giovane venditore di nyama choma, la tipica carne arrostita e speziata. «La città è un cantiere: stanno rifacendo tutto. Abbiamo bi sogno di turisti. Quando, quattro anni fa, è crollato un pezzo della Casa delle Meraviglie (costruita nel 1883 dal sultano Barghash bin Said, uno degli esempi più importanti di architettura swahili in Africa orientale, NdR), si è capito che bisognava intervenire, fare qualcosa».

Trasformazione vorticosa

Quel “qualcosa” oggi si chiama restyling. Stone Town, patrimonio mondiale dell’umanità, è al centro di un progetto di 3,5 milioni di dollari, affidato all’Infinity Group Developments di Dubai. «Il Vecchio Forte sarà completamente rinnovato: nuova arena-teatro all’aperto, giardini, fontane, spazi per la musica, aree per lo shopping. La parte museale avrà display interattivi che coinvolgeranno i visitatori nella storia di Zanzibar», spiega Samuel Saba, presidente di Infinity Group, figura cruciale nel futuro dell’isola.

Margherita Marvasi, giornalista e scrittrice bolognese che qui vive da oltre vent’anni, autrice di Zanzibar è una bugia, solleva però dubbi e interrogativi: «Mai come ora la città è in trasformazione. Molti edifici storici sono stati venduti e i nuovi investitori stanno cacciando i residenti per ristrutturare. Gli affitti aumentano e i locali fanno fatica a mantenere le loro case e loro botteghe». Quella dell’arcipelago è una storia legata più alla dominazione araba e alla religione islamica, mentre il mainland (Zanzibar e il Tanganica si sono fusi nel 1964 dando vita alla Repubblica Unita di Tanzania) è stato segnato soprattutto dal colonialismo europeo, prima tedesco e poi inglese. Non a caso Zanzibar si è sempre sentita “diversa”, tanto che ha un proprio governo e un sistema amministrativo distinto da quello della Repubblica Unita di Tanzania. In quest’isola dove bantu, indiani, arabi, europei e asiatici convivono da sempre, i sorrisi abbondano. Ma oggi serpeggiano nuove inquietudini che rischiano di spezzare l’armonia che ha plasmato a lungo la popolazione locale. La sfida, per tutti, è fare stare assieme il desiderio di preservare la propria antica eredità e l’inevitabile necessità di guardare al futuro.

«A Zanzibar si è da tempo smarrito un senso di identità nazionale. Quest’isola è sempre stata storicamente in bilico fra l’abbracciare orgogliosamente una sua specifica anima “africana” o crogiolarsi tra le braccia degli ex dominatori delegando a loro la responsabilità del futuro», afferma Francesca Scalfari, albergatrice a Jambiani e figura di riferimento per la comunità italiana. «Questa specie di incantesimo che oggi vuole Zanzibar protagonista di un futuro di prosperità è un abbaglio seducente che non fa altro che creare ancora più confusione».

Anche la Formula 1

L’isola punta a diventare la Dubai dell’Africa orientale, con le sue maestose architetture iconiche. Presto anche Zanzibar avrà le sue, con progetti faraonici come l’Anantara Zanzibar Resort & Residences: 250 milioni di dollari per 160 ville e 90 appartamenti di lusso. Le Shivo Towers di Paje raggiungeranno i 10 piani e 162 appartamenti con giardini tropicali e servizio in camera. E non poteva mancare un grattacielo: la Zanzibar Domino Commercial Tower, ispirata ai pezzi di domino impilati, sarà il secondo edificio più alto del continente dopo la Iconic Tower in Egitto. Con i suoi 550 metri e 70 piani, ospiterà 560 appartamenti e un campo da golf. Sorgerà su un’isola artificiale di fronte a Stone Town. Progettata dal gruppo XCassia di New York e Dubai, l’opera prevede un investimento di 1,3 miliardi di dollari. E questi sono solo alcuni dei molti progetti in arrivo. «Temo che questi sviluppi non faranno bene alle piccole realtà come la mia», afferma Stefania Nobile, imprenditrice genovese che da quindici anni gestisce una pizzeria con bungalow sulla spiaggia. «I mega resort non sempre assumono personale locale e non potranno mai creare quel legame umano che noi piccoli imprenditori abbiamo costruito con la comunità locale. La comunità qui è straordinaria, e non potrò mai ringraziarla abbastanza».

Non è solo l’urbanistica a preoccupare Zanzibar, c’è anche un’altra febbre che cresce: la Formula 1. La Zanzibar Circuit East of Africa Ltd., con il coinvolgimento dell’ex pilota Giancarlo Fisichella, ha annunciato un progetto da 500 milioni di dollari per costruire un circuito automobilistico di 7.660 metri – il più lungo della F1 – con resort da 1.500 camere, parco acquatico e marina per mega-yacht. La posa della prima pietra è prevista entro l’anno.

Giovani acrobazie

In attesa di una Zanzibar 2.0, inevitabilmente destinata a suscitare dibattiti – e non solo in vista delle elezioni presidenziali del prossimo 28 ottobre –, c’è un’isola meno conosciuta, più problematica e silenziosa. È l’isola della resilienza che non compare nei dépliant pubblicitari, dove il salario mensile di 500.000 scellini tanzaniani (circa 200 euro) è appena sufficiente per coprire le spese primarie di sopravvivenza. La povertà resta un problema concreto in un arcipelago che vanta uno dei tassi di crescita demografica più alti del continente.

Anche a Zanzibar, come in molti Paesi del continente, l’energia elettrica è un problema. Le interruzioni sono frequenti, spesso più volte a settimana. L’elettricità arriva dalla Tanzania continentale attraverso cavi sottomarini, ma la capacità di fornitura resta insufficiente per soddisfare la crescente domanda delle strutture turistiche, che contano circa 700 hotel di ogni categoria. Tuttavia, non è solo una questione di domanda: i frequenti blackout sono dovuti anche alla necessità costante di manutenzione degli impianti. A pagarne le conseguenze sono soprattutto i residenti, mentre i turisti raramente avvertono il disagio: gli hotel compensano con generatori alimentati a gasolio o con impianti fotovoltaici.

In un arcipelago dove gran parte delle infrastrutture è di proprietà o gestione di imprenditori non africani, Move Zanzibar rappresenta un’eccezione. Questa iniziativa locale, avviata da un giovane tanzaniano per altri giovani tanzaniani, offre una rara opportunità di crescita. Oggi, una cinquantina di ragazzi si sta preparando per il nuovo spettacolo, mentre altri insegnano ai più piccoli le basi dell’acrobatica. «Il nostro futuro», spiega Clalence Lutumo, trentenne dal sorriso contagioso, fondatore di questa scuola per giovani artisti destinati a esibirsi negli hotel, «è migliorare costantemente senza dipendere da nessuno, continuando a imparare nuove acrobazie e ad organizzare sempre più spettacoli».

Futuro sostenibile

Poco distante dalla celebre spiaggia di Paje, ritrovo di surfisti europei e locali animati da musica house, all’improvviso emergono dalla bassa marea lunghe file di bastoncini di legno, simili a grandi orti sommersi. È qui che centinaia di donne, avvolte nei loro kanga colorati, coltivano alghe con movimenti lenti e ripetitivi che ricordano la semina del riso. «Le alghe crescono grazie al sole e ai nutrienti dell’acqua, non hanno radici piantate nel terreno: le leghiamo a corde fissate tra due pali conficcati nella sabbia e, quando raggiungono il giusto volume, le raccogliamo e portiamo a riva per essiccarle», spiega una delle mamas del villaggio. Ricche di sostanze antiossidanti, queste alghe rosse vengono lavorate localmente per produrre saponi e creme per la pelle, che finiscono nelle botteghe dell’isola o vengono esportate da aziende tanzaniane specializzate.

Ed è ancora una donna ad aver dato vita, otto anni fa, a un’iniziativa che oggi è diventata un punto di riferimento nell’arcipelago: il riciclo. Sasha Borisova ha fondato, insieme alla comunità di Jambiani, Zanzibar Recycle TZ309, una piccola azienda dedicata alla gestione dei rifiuti. «Tutto è iniziato con una semplice pulizia della spiaggia: il villaggio intero si è unito per raccogliere e riutilizzare la plastica abbandonata. Confezioni Tetra Pak, contenitori, corde da pesca, sacchi di cemento e tappi di plastica si sono trasformati in accessori variopinti e originali: zaini, borse, portafogli. Insieme alla comunità locale, abbiamo creato un ecosistema economico di successo, collaborando con negozi, hotel e ristoranti, dove viene venduta la maggior parte dei nostri prodotti. Vogliamo coinvolgere sempre più giovani, perché crediamo che con l’impegno di tutti sia possibile costruire un futuro più sostenibile per Zanzibar».

Un futuro ancora da scrivere, sospeso tra la fierezza della gente di Zanzibar e l’irrefrenabile desiderio di cambiamento, dove non sarà più l’oceano a scandire il ritmo del tempo. Ma forse Zanzibar non chiede di essere compresa. È tormento e bellezza, passione e orgoglio. Prima di essere inghiottito dai megascreen dell’International Karume Airport, una folata di aria calda mi investe in pieno volto: l’ultima carezza d’Africa.

Questo articolo è uscito sul numero 3/2025 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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