di Andrea Spinelli Barrile
Le Forze paramilitari di supporto rapido (Rsf) del Sudan hanno accettato una proposta degli Stati Uniti per un cessate il fuoco umanitario. Il governo militare non ha ancora risposto, ma intanto dichiara la mobilitazione generale. L’Onu parla della più grave crisi umanitaria del mondo. Si stima che più di 150.000 persone siano state uccise nei combattimenti degli ultimi due anni, che ci siano 23 milioni di sfollati, ed entrambe le parti sono accusate di una serie di crimini di guerra.
Le Forze paramilitari di supporto rapido (Rsf) del Sudan hanno accettato una proposta degli Stati Uniti per un cessate il fuoco umanitario. Lo ha fatto sapere nei giorni scorsi il gruppo paramilitare. Il governo militare sudanese non ha ancora risposto ma il 3 novembre il quotidiano Sudan Tribune, citando Massad Boulos, consigliere senior del presidente degli Stati Uniti Donald Trump per l’Africa, ha scritto che l’esercito sudanese non si oppone a una tregua umanitaria di tre mesi ed ha sottolineato l’iniziale approvazione da entrambe le parti e che gli Stati uniti sono concentrati sulla definizione dei dettagli dell’accordo. Tuttavia il giorno dopo, 4 novembre, il Consiglio di sicurezza e difesa del Sudan, in una riunione straordinaria presieduta dal capo del Consiglio sovrano, Abdel Fattah al-Burhan, ha annunciato una mobilitazione generale della popolazione per sostenere le forze armate nella lotta contro i gruppi ribelli.
A settembre, gli Stati uniti, insieme agli Emirati arabi uniti, all’Arabia saudita e all’Egitto, hanno proposto una tregua umanitaria di tre mesi, seguita da un cessate il fuoco permanente e dalla transizione verso un governo civile. Nella dichiarazione, le Rsf dicono di aderire alla tregua proposta dai quattro Paesi “per affrontare le catastrofiche conseguenze umanitarie della guerra” e per consentire la “consegna urgente” degli aiuti. Il gruppo ha inoltre detto di attendere con interesse le discussioni sulla fine delle ostilità “in un modo che affronti le cause profonde dei conflitti” e “crei l’ambiente appropriato per una pace giusta, globale e duratura”.

Le Rsf hanno rilasciato la loro dichiarazione in cui accettano la proposta americana dopo aver conquistato la città di el-Fasher, nella regione occidentale del Darfur: l’assedio, durato 18 mesi, ha bloccato gli aiuti umanitari nonostante i ripetuti appelli delle Nazioni unite, causando la fame tra i residenti impossibilitati a fuggire. Rsf ha anche espresso la speranza che l’accordo venga attuato e che “si avviino immediatamente le discussioni sulla fine delle ostilità” per “affrontare le cause profonde dei conflitti”. Un osservatorio globale sulla fame, sostenuto dalle Nazioni unite, ha confermato le condizioni di carestia in città. Le Rsf, durante e dopo l’assedio a el-Fasher, dovuto affrontare la reazione internazionale di sconcerto e indignazione per le segnalazioni di omicidi di massa da parte dei suoi soldati, che le Rsf hanno sempre negato, ammettendo tuttavia che sono state commesse “violazioni” da parte di singoli individui che sarebbero stati poi arrestati. Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite ha dichiarato che terrà una sessione urgente sulla situazione a el-Fasher il 14 novembre.

Il conflitto in Sudan ha creato quella che l’Onu ha definito “la più grande crisi umanitaria del mondo”, in cui si stima che oltre 24 milioni di persone stiano affrontando una grave carenza di cibo, ma la battaglia per conquistare El-Fasher è stata una parentesi particolarmente drammatica in questo conflitto: la città era un obiettivo chiave per le forze paramilitari Rsf, l’ultima roccaforte in Darfur detenuta dall’esercito sudanese. Dopo aver tenuto la città sotto assedio per quasi due anni, a partire da agosto le Rsf si sono mosse per consolidare la propria posizione e bloccare la popolazione civile rimanente, pianificando attentamente la strage: alla fine dell’estate le truppe Rsf hanno iniziato a costruire un’enorme berma (una barriera di sabbia rialzata) attorno al perimetro di el-Fasher, sigillando le vie di accesso e bloccando gli aiuti. All’inizio di ottobre, l’anello circondava completamente la città, con una barricata più piccola che circondava un villaggio vicino: “Guardate tutto questo lavoro. Guardate questo genocidio” esulta un combattente delle Rsf in un video diffuso sui sociale diventato virale. L’uomo sorride mentre punta la telecamera su di sé e sui suoi compagni combattenti, tutti a bordo di un pickup con i distintivi delle Rapid support forces in bella vista: “Moriranno tutti così”.

Il massacro di el-Fasher è una solo una goccia in un lago di sangue: secondo le autorità umanitarie, l’assedio e la battaglia a el-Fasher ha causato la morte di oltre 2.000 persone nella città sudanese e lunedì la Corte penale internazionale (Cpi) ha dichiarato di aver avviato un’indagine per accertare se i paramilitari abbiano commesso “crimini di guerra e crimini contro l’umanità”. Il lago di sangue, tuttavia, si chiama Sudan: si stima che più di 150.000 persone siano state uccise nei combattimenti degli ultimi due anni, che ci siano 23 milioni di sfollati, ed entrambe le parti sono accusate di una serie di crimini di guerra, molti dei quali sono stati ripetuti dalle Rsf dopo la caduta di el-Fasher, dove sono stati commessi eccidi di massa drammatici. Sono le stesse Rsf a parlare, i loro miliziani a mostrarli al mondo con i video da fanatici girati con i telefonini e messi sui social: scene di distruzione, incendi, carcasse di mezzi, battaglie, minacce ai civili, eccidi veri e propri, corpi umani. Corpi umani da tutte le parti, impolverati, bagnati di sangue.

Nei giorni successivi al massacro di el-Fasher, il leader delle Rsf, generale Mohamed Hamdan Dagalo, ha ammesso che le sue truppe avevano commesso “violazioni” e ha detto che gli incidenti sarebbero stati oggetto di indagine, l’ennesima occasione per chiamare sangue col sangue, per fare repulisti nella milizia, per regolare i conti interni. Tra gli arrestati c’è il comandante Abu Lulu, che in diversi video diffusi su internet nei giorni scorsi è mostrato mentre giustizia civili inermi o impartisce ordini di morte, uccisioni a gruppi di tre-quattro-nove persone alla volta. È lo stesso Lulu, in uno di questi video, a usare la parola “genocidio” per descrivere quello che stanno facendo, lui e gli uomini sotto il suo comando.
Foto di apertura di Eduardo Soteras/Panos Pictures: Un uomo in una sala operatoria distrutta dell’ospedale specialistico Aliaa, colpito da pesanti attacchi di artiglieria e saccheggiato dalle Forze di supporto rapido (Rsf).


