Sta prendendo sempre più consistenza l’ipotesi che l’Africa crei una sua forza di intervento rapido, che, all’insorgere delle prime avvisaglie di crisi regionali, arrivi e risolva i problemi, restando solo il tempo indispensabile. Il Continente Nero infatti non ci sta più ad essere comprimario o soltanto testimone delle crisi regionali che, spesso, vengono risolte con l’arrivo di soldati dall’Europa o da altri Paesi e pensa ad una struttura militare permanente di pronto intervento.
L’Africa non ci sta essenzialmente per due ordini di motivi: perché si sente ormai emancipata da colonialismi o protettorati più o meno mascherati; ma anche perché è convinta di avere uomini e mezzi capaci di fronteggiare tali emergenze.
A spingere verso questa soluzione – che innegabilmente sarebbe cosa gradita anche per la vecchia Europa, troppo spesso chiamata in causa nelle tumultuose “contrade” del Continente – è soprattutto il blocco dei Paesi forti dell’Africa, da un punto di vista politico, ma anche militare. Come il Sudafrica (il presidente Jacob Zuma è il principale sostenitore della forza di intervento rapido), come l’Algeria (con il suo potentissimo, attrezzatissimo e scalpitante esercito), come Ciad e Senegal (astri nascenti del militarismo di pelle nera) o l’Etiopia (che vuole garantirsi ulteriormente il ruolo di potenza regionale nel Corno d’Africa).
A dare una decisa spinta all’iniziativa è stata certamente la vicenda maliana che, sul terreno, ha avuto il suo epilogo militare con l’operazione franco-africana Serval, che però è scattata con troppo ritardo, tra consultazioni, contatti, decisioni e preparazione.
Mesi passati a parlarsi ed a valutare impatto e ricadute, mentre gli jihadisti consolidavano nel nord maliano le loro posizioni, rendendo più difficile la riconquista e, peraltro, allungando a dismisura la sofferenza delle popolazioni, schiacciate sotto il tallone della sharia.
Il ragionamento che Zuma e gli altri capi di Stato sembrano fare è abbastanza condivisibile: l’Africa ormai è nelle condizioni politiche (ed anche militari) per potere decidere se e quando intervenire e così dovrà fare in un futuro vicino, per evitare che le trame della diplomazia dilatino a dismisura i tempi per affrontare e risolvere le crisi.
Come le lacerazioni che spesso paralizzano le iniziative dell’Europa e delle Nazioni Unite . Insomma, un ricorso al pragmatismo, che corre sul sottile confine tra il diritto-dovere all’ingerenza e il principio di non ingerenza. O, più semplicemente, sembrano dire oggi i Paesi del Continente, siamo stanchi delle incursioni straniere e non possiamo consentire che i terroristi abbiano vita facile, magari portando il verbo jihadista sull’uscio di casa.
In Algeria si commenta l’iniziativa positivamente, dicendo che ai problemi africani rispondiamo con una soluzione africana, magari non intervenendo direttamente con truppe, ma mettendo il Paese “sotto attacco” nelle condizioni migliori per difendersi. – Swissinfo