di Andrea Spinelli Barrile
Il Sahel è colpito da una violenta ondata di attacchi jihadisti, rivendicati da gruppi affiliati all’Isis e ad al-Qaeda. L’escalation registrata tra maggio e giugno rappresenta una delle fasi più sanguinose nella storia recente della regione.
Oltre 850 civili sono stati uccisi nel solo mese di maggio in Burkina Faso, Mali e Niger da gruppi jihadisti affiliati all’Isis e ad al-Qaeda. Lo rivela un rapporto di Acled (Armed Conflict Location and Event Data), organizzazione indipendente specializzata nel monitoraggio della violenza politica, citato in un’analisi dell’agenzia Reuters. Si tratta di un’escalation drammatica rispetto ai circa 600 civili uccisi nei cinque mesi precedenti.
L’ondata di attacchi tra maggio e giugno segna uno dei periodi più sanguinosi nella storia recente del Sahel e conferma la crescente minaccia rappresentata dai gruppi islamisti armati. Secondo gli analisti citati da Reuters, le offensive jihadiste degli ultimi mesi indicano un chiaro cambio di strategia: si assiste non solo a un incremento degli attacchi, ma anche a un aumento delle vere e proprie battaglie contro le forze armate locali, spesso concluse a favore degli insorti.
Il Jnim (Gruppo di sostegno all’Islam e ai musulmani), legato ad al-Qaeda, ha condotto solo in Mali oltre una dozzina di assalti a postazioni militari tra maggio e giugno, sostenendo – nei propri comunicati – di aver ucciso più di 400 soldati. Sebbene queste cifre non siano verificate, il silenzio della giunta militare maliana, che non ha commentato nemmeno lo scontro del 1° giugno nella base di Boulkessi, lascia intendere la gravità della situazione.
Secondo alcuni esperti interpellati da Reuters, il Jnim sta abbandonando le tattiche di guerriglia rurale per concentrarsi sul controllo del territorio attorno ai centri urbani, con l’obiettivo di accerchiare le capitali saheliane, instaurare amministrazioni parallele e creare un vero e proprio Stato jihadista esteso dal Mali occidentale al Niger meridionale, fino al nord del Benin.

Il gruppo è guidato da Iyad Ag Ghaly, ex ribelle tuareg del Mali convertitosi al jihadismo negli anni Duemila. Già leader del gruppo fondamentalista Ansar Dine, nel 2012 aveva contribuito all’occupazione del nord del Mali. Ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità, Ag Ghaly ha giurato fedeltà ad al-Qaeda e guida oggi una coalizione che include Aqim, Al-Mourabitoun e Katiba Macina, confluiti nel Jnim nel 2017. Con un numero stimato di 6.000-8.000 combattenti, il Jnim è oggi il gruppo jihadista più potente dell’Africa occidentale, e punta a estendere il proprio controllo su un’area vasta quanto il doppio dell’Europa occidentale, popolata da oltre 430 milioni di persone.
Negli ultimi mesi, il gruppo ha affinato le proprie tattiche, ricorrendo anche a droni e armi antiaeree. Il finanziamento delle operazioni deriva da estorsioni, rapimenti, furti di bestiame, traffici illeciti e attività minerarie illegali. Nelle aree sotto il suo controllo viene imposta la zakat, una tassa di “protezione”, mentre la Sharia applicata è meno brutale rispetto ad altri contesti, senza ricorrere a mutilazioni o lapidazioni. In compenso, il gruppo si è guadagnato il sostegno di alcune comunità, ad esempio sedando i conflitti interetnici.
A maggio, i jihadisti hanno occupato Djibo, capoluogo della provincia settentrionale del Burkina Faso con oltre 60.000 abitanti, e due giorni dopo hanno preso anche Diapaga, nell’est del Paese. Secondo Heni Nsaibia, analista di Acled, solo a Djibo il Jnim avrebbe sequestrato munizioni per un valore stimato di 3 milioni di dollari.
Particolarmente efficace è stata la strategia di reclutamento presso le comunità emarginate, in particolare tra i Fulani, popolo di pastori diffusi in tutto il Sahel. La narrativa di “protezione degli oppressi” sta permettendo al Jnim di rafforzarsi anche in nuovi territori: l’estensione delle operazioni al nord del Benin e al Togo segnala infatti un’evoluzione del conflitto, che mira ai Paesi costieri del Golfo di Guinea, spesso già utilizzati come basi di supporto per le incursioni nell’entroterra.

L’uso di droni armati nel Sahel
Il rapporto del Policy center for the New south (Pcns, un think tank marocchino) offre un ulteriore approfondimento sull’uso di droni armati nel Sahel. Il report è stato co-redatto da Rida Lyammouri, ricercatore senior del Pcns, e della ricercatrice e consulente Niccola Milnes. Da quanto si evince dal rapporto, Jama’at Nusrat al-Islam wal Muslimin dal 2023 ne ha aumentato significativamente l’uso.
Questo sviluppo tecnologico preoccupa gli esperti e sta indebolendo le attuali strategie antiterrorismo, sia dei Paesi colpiti da questi gruppi che dai loro alleati, africani e non africani: il documento elenca oltre 30 attacchi confermati, soltanto in Mali, a partire da settembre 2023, l’82% dei quali è stato registrato dal mese di marzo 2025: questi attacchi hanno preso di mira posizioni militari in Mali, Burkina Faso e Togo e vi sono segnali di espansione in Niger e Benin. Tra gli attacchi più noti, il rapporto ne cita uno di giugno 2025 a Boulkessi (Mali), in cui sono rimasti uccisi diverse decine di soldati maliani, uno di aprile 2025 in Togo, che è costato la vita a cinque soldati, e quello di maggio a Eknewane (Niger), in cui hanno perso la vita 41 militari nigerini.
Tuttavia, si legge nel report, le attività dei jihadisti non sono le uniche a essere state messe sotto osservazione e anche il Fronte di liberazione dell’Azawad (Fla) ha iniziato a usare queste tecnologie e, si legge, “l’adozione precoce da parte della Fla di droni con decollo e atterraggio verticale (Vtol) e visuale in prima persona (Fpv), unita alla possibile diffusione tecnica attraverso operazioni congiunte e all’integrazione di ex personale della Fla, ha probabilmente contribuito all’accelerazione delle capacità dei droni del Jnim”. Il Jnim, rivela il report, utilizza droni commerciali come Dji o Fpv, modificati per trasportare cariche esplosive, e impiega algoritmi di intelligenza artificiale offline per ottimizzare le traiettorie e aggirare i sistemi di disturbo: questi attacchi vengono filmati e diffusi sui canali social dell’organizzazione, diventando tra l’altro spesso virali anche fuori dal mondo jihadista, trasmessi per aumentare la pressione psicologica sulle forze regolari. L’uso dei droni da parte del Jnim sembra condizionato da risentimenti e segnalazioni psicologiche, con propaganda visiva che spesso imita i filmati degli attacchi da parte delle forze governative per affermare, o dimostrare, di avere il predominio e contestare la potenza aerea statale.

Di fronte a questa minaccia, gli eserciti nazionali appaiono disorganizzati, con capacità di rilevamento limitate e risposte poco eterogenee. “Il Jnim ha trasformato i droni in armi da guerra asimmetrica. Senza una risposta coordinata, la minaccia supererà presto le capacità di controllo degli Stati” si legge nelle conclusioni del report, in cui si raccomanda di creare una task force regionale anti-droni, di sviluppare contromisure accessibili come jammer e decoy e di addestrare le truppe in tattiche di sopravvivenza, come il camuffamento e l’uso di fumogeni.
Il Sahel, già epicentro del jihadismo globale, sta quindi assistendo al superamento di una nuova soglia tecnologica da parte della guerra asimmetrica, costringendo gli Stati a rafforzare le proprie capacità di risposta. Mali, Niger e Burkina Faso, guidati da giunte militari e uniti tra loro nella Confederazione degli Stati del Sahel, hanno annunciato l’imminente creazione di una forza congiunta di 5.000 uomini per armonizzare la loro risposta militare ai gruppi terroristici armati. Ciascuno di questi Paesi ha già acquisito droni armati dal produttore turco Baykar, tecnologia che sta impiegando nelle proprie operazioni.


