A cura di Marco Trovato
“L’Africa non è così Cronache da un continente frainteso” (Einaudi, 2025, pp. 176, euro 16,50), disponibile da martedì 30 settembre, è il nuovo libro di Chiara Piaggio (foto di apertura), africanista, studiosa di cultura e letteratura, che da oltre vent’anni frequenta il continente. Un testo che mescola racconti di viaggio, riflessioni e storie di ieri e di oggi, con un obiettivo: mettere in discussione gli sguardi stereotipati con cui siamo soliti guardare all’Africa. Guarda la videointervista integrale pubblicata sul nostro canale Youtube.
Il titolo è già una dichiarazione di intenti. Perché parlare di un’Africa “fraintesa”?
Perché per molto tempo l’Africa è stata raccontata attraverso filtri ideologici ed emotivi: come un continente da compatire, da idolatrare o da controllare. In questo modo la sua storia millenaria – che non si riduce alla tratta degli schiavi o alla colonizzazione – è stata oscurata. Ancora oggi fatichiamo a coglierne la complessità senza ricorrere a slogan riduttivi: ieri l’“Africa povera e disperata”, oggi l’“Africa del futuro” e della “resilienza”. Sono etichette che ribaltano i vecchi cliché, ma ne creano di nuovi.
Dire “Afriche” al plurale è un modo per rispettarne la diversità o un artificio linguistico?
È più un gesto che serve a noi. Gli africani non hanno bisogno di ricordarsi che sono diversi tra loro: un senegalese sa bene di non essere angolano. Parlare di “Afriche” rischia di essere un esercizio di coscienza occidentale, una formula che ci illude di aver superato gli stereotipi, ma che spesso non va oltre. L’Africa non deve essere trattata in maniera speciale: è un continente, come tutti gli altri.
La nostra bianchezza può distorcere il racconto sull’Africa?
Non credo sia un ostacolo, ma è un punto di vista che va dichiarato. L’Africa non è così significa proprio questo: non esiste un’unica verità, e nemmeno il mio racconto lo è. Viaggiando mi sono spesso resa conto di quanto il colore della pelle mi aprisse porte precluse ad altri: in ospedale, davanti a una fila, o con ministri e funzionari che mi ricevevano non per i miei meriti, ma per ciò che rappresentavo. È un privilegio storico che mi precede e che non posso ignorare. Per questo non credo che la discriminazione nasca semplicemente dalla paura del diverso. In Africa io ero “la diversa”, eppure ho ricevuto trattamenti più indulgenti del dovuto. Non è questione di differenze, ma di gerarchie che continuano a segnare le relazioni globali.
Il suo primo impatto con il continente?
Nel 2003, per lavoro. Non partivo con una fascinazione particolare e le grandi città mi parvero caotiche, respingenti. Ma col tempo ho imparato ad amarne la vitalità, la creatività, l’energia contagiosa che vi circola.
Un’immagine che l’ha segnata?
Un murale visto a Lagos: “The story is not over yet”. Forse non era quello il senso originario, ma per me è stato rivelatore. In Occidente ci siamo illusi che la storia fosse “finita”, che il mondo avesse trovato un equilibrio. In Africa, invece, la storia continua: le società sono giovani, dinamiche, sempre in trasformazione.
Lei ha lavorato anche nella cooperazione. Che idea si è fatta degli aiuti allo sviluppo?
È un ambito molto più sfaccettato di quanto racconti la comunicazione pietistica che lo accompagna. In Burkina Faso, dove ho vissuto a lungo, gli aiuti erano talmente pervasivi da creare distorsioni: tutti sapevano cosa dire per ottenere un nuovo progetto. Ricordo un uomo che mi chiese: “Da anni venite qui per ‘svilupparci’. Ma qual è la scala dello sviluppo? Quando potremo dire: adesso basta?”. Una domanda semplice, eppure senza risposta.
Le nuove tecnologie stanno cambiando il volto del continente?
Sì, in modo radicale. È quello che alcuni chiamano “salto della rana”: dall’assenza di infrastrutture alla diffusione capillare degli smartphone. Questo ha dato voce a milioni di giovani, che si informano, si organizzano, protestano. I social network hanno persino alimentato movimenti di massa, come l’#EndSARS in Nigeria. Naturalmente portano anche disinformazione, ma il loro impatto è enorme.
E sul piano politico?
I giovani non rifiutano la democrazia in sé, rifiutano una democrazia corrotta, manipolata da élite che restano al potere a oltranza. In questo contesto è nata la popolarità di figure come Ibrahim Traoré in Burkina Faso, percepito come un “nuovo Sankara”. Dall’esterno può sorprendere, ma risponde a bisogni e frustrazioni molto reali.
Nel libro dedica spazio anche alla cultura. Che ruolo ha?
Un ruolo decisivo. Per decenni il racconto sull’Africa è stato dominato da ONG, guerre e retoriche turistiche. Oggi invece scrittori, musicisti e registi africani stanno conquistando il pubblico globale. Non è una “rinascita culturale” – la cultura africana non è mai scomparsa – ma finalmente trova ascolto. Penso a Mohamed Mbougar Sarr, premio Goncourt, o ai nuovi registi africani che approdano su Netflix.
E il turismo?
È una risorsa importante, non va demonizzato. Ma serve consapevolezza: i parchi naturali, ad esempio, spesso sono nati espellendo le comunità locali. Non sono “terre incontaminate” come ci piace immaginarle. Viaggiare conoscendo la storia dietro i luoghi rende l’esperienza più autentica e rispettosa.
Dopo vent’anni di viaggi, perché continua a tornare?
Perché ogni volta trovo qualcosa che non conoscevo. L’Africa non smette mai di interrogarmi: mette in crisi le mie certezze e mi costringe a rivedere i miei schemi. È questa la ragione per cui non smetto di tornare.



