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kafala

    Kafala
    FOCUSSOLIDARIETÀ

    Kafala, l’inferno delle colf africane in Libano

    di Diego Fiore 15 Novembre 2020
    Scritto da Diego Fiore
    Tempo di lettura stimato: 6 minuti

    A decine di migliaia le donne etiopiche emigrano a Beirut per lavorarvi come domestiche. Quella che sembrava l’occasione della vita per sfuggire alla povertà troppo spesso si rivela una sequela di umiliazioni, abusi e ricatti… Che spinge al suicidio. O a ribellarsi. In loro soccorso ora però c’è la ong italiana Celim

    Kafala è la parola araba che designa il complesso sistema che regola il lavoro, la vita, e spesso la morte, dei lavoratori immigrati in Libano. In inglese si direbbe sponsorship, che attribuisce però troppa dignità a quello che non è un sistema di leggi bensì un insieme di pratiche e consuetudini tenuto insieme dalla General Security, il corpo di polizia che difende i confini libanesi. La kafala si basa sul contratto tra un lavoratore migrante e uno sponsor locale (il kafeel), spesso messi in contatto da intermediari, come agenzie di reclutamento o broker. Si instaura un nesso strettissimo fra contratto di lavoro e diritto alla residenza: il lavoratore ha diritto a risiedere nel Paese solo in quanto impiegato dello sponsor locale. La rottura del contratto significa la perdita della residenza.

    Si stima che oggi in Libano le domestiche straniere siano circa 250.000; potrebbero essere, in realtà, molte, molte di più. Chi conosce il Paese sa che le statistiche sono poco più che vaghe approssimazioni: con la complicità di un sistema politico che basa la divisione dei poteri su un presunto equilibrio settario, un vero e proprio censimento non si effettua da decenni, e i numeri si arrotondano, all’occorrenza, per eccesso o per difetto.

    Il reclutamento

    Meseret ha 18 anni, vive nella periferia di Addis Abeba, in Etiopia, con i suoi genitori. A volte porta a casa qualchebirrfacendo lavoretti qua e là, ma anche arrabattandosi fatica a raggiungere una stabilità economica. Da quando era bambina, ha visto tante ragazze come lei partire per cercare un impiego all’estero: alcune sono tornate, altre no. Sua madre la accompagna a un ufficio sbilenco ai margini della capitale, lo chiamano agenzia del lavoro. Paga delle tasse non ben specificate, il prezzo del biglietto aereo, e la settimana dopo Meseret si presenta all’aeroporto, con una grande croce di legno al collo e la testa coperta dal velo bianco ricamato ai margini che usa la domenica a messa.

    Aeroporto, altro aeroporto e poi, di nuovo, un’agenzia. L’agenzia libanese è diversa da quella di Addis. È un bell’ufficio, lustro e ordinato. Una porta separa la stanza principale da uno sgabuzzino, in cui una signora elegante che scandisce incomprensibili parole in arabo la spinge, con uno strattone e un sorriso. Meseret trova altre giovani donne. Alcune etiopi. Selam, Selamnash? si salutano. Visi scuri, visi chiari, visi orientali, visi africani. La stessa espressione di dubbio e attesa. Le etiopiche sono la stragrande maggioranza delle lavoratrici domestiche in Libano. Ci sono poi migranti dal Sud-est asiatico, Filippine, Sri Lanka, Bangladesh, oppure da altri Paesi africani, come Kenya, Camerun e Madagascar. Una volta reclutate dalle agenzie, che spesso hanno veri e propri cataloghi di colf da mostrare ai propri clienti, le giovani donne vengono proposte a un kafeel libanese. Le filippine, chiare di carnagione e spesso fluenti in inglese, sono domestiche di prima scelta e vengono retribuite con stipendi più alti, di circa 300 dollari al mese.

    La trappola

    Nella classifica delle nazionalità, le etiopi sono in fondo in fondo, il loro stipendio non supera i 200 dollari. Se le norme di base della kafala si applicano a tutti i lavoratori migranti, uomini e donne, per le donne c’è un’ulteriore regola non scritta: la propria residenza deve coincidere con quella del datore di lavoro. L’assenza ingiustificata dalla residenza è sufficiente perché il datore di lavoro possa denunciare la donna e rompere il contratto unilateralmente, rendendola così irregolare e quindi passibile di cattura, detenzione ed espulsione.

    Mister o Madame, gli sponsor, hanno così tecnicamente la possibilità di sfruttare h24 il lavoro della loro sana’a (termine popolare che deriva, in maniera significativa, dalla radice del verbo “produrre”). La confisca del passaporto è una consuetudine: passa da agente a kafeel e viene riconsegnato alla lavoratrice solo quando si acconsente a rispedirla a casa. Il datore di lavoro decide se e quando la domestica riceverà il suo stipendio, intero o arbitrariamente ridotto. Il confinamento tra le mura domestiche determina orari di lavori interminabili, i compiti più disparati e, con una frequenza allarmante, violenze verbali, fisiche, sessuali e, in casi documentati, anche l’omicidio.

    In mancanza di un sistema di tutela, spesso la differenza tra vita e morte, o tra condizioni lavorative dignitose e non, la fa la buona sorte di trovarsi fra le mani di un datore di lavoro un po’ più sensato o un po’ meno razzista. Se invece la sana’a abbandona il domicilio e cerca rifugio altrove, diventa harbaneh, “colei che fugge”, a conferma del singolare parallelismo tra luogo di lavoro e prigione.  

    Solidarietà migrante

    Spesso e volentieri le harbanin si ritrovano nei quartieri appena fuori Beirut, che diventano colorati e multiformi, nelle tante espressioni di un’economia sommersa ma non troppo: ristoranti etiopi, srilankesi, addirittura fusion, negozi di merci africane, saloni di bellezza di tutte le fogge. La vita continua così, in un equilibrio delicato tra la necessità del ritorno a un’esistenza normale e indipendente, e le retate della General Security.

    A Beirut, Adlieh è più di un quartiere. Se sei un migrante nella capitale libanese, Adlieh significa prigione. Quello di Adlieh è il più grande centro di detenzione amministrativa della città, dove finiscono tutti i migranti in attesa di essere ripescati dal proprio kafeel o di essere deportati. Il carcere di Adlieh è un’enclave apolide, un limbo amministrativo in cui si decide il destino di centinaia di persone senza voce in capitolo. Però, se Meseret finisse lì, probabilmente riceverebbe almeno una volta a settimana la visita di un’amica migrante, che le porterebbe lo shampoo e del caffè. E se si segue a ritroso il cammino di quell’amica, si incrocerebbe la rete vastissima di mutuo supporto che esiste tra i lavoratori immigrati. Le esperienze di mutuo aiuto sono sempre più numerose, raggiungendo anche vette di vero e proprio attivismo politico. In alcuni casi, le donne migranti si riuniscono a prescindere dalla propria provenienza, altre volte si raggruppano per nazionalità.

    Denunce inascoltate

    Ognuna con le proprie peculiarità, queste organizzazioni hanno generalmente dei tratti in comune. Spesso i loro membri si tengono in contatto con larghissimi gruppi WhatsApp, che valicano i confini delle città e contano componenti in tutto il Paese.

    Le partecipanti si scambiano informazioni e contatti, organizzano visite alle sorelle detenute, creano asili informali per i loro bambini nati in barba al sistema, ospitano nelle proprie stanze le amiche di amiche che, esauste, hanno lasciato la casa dello sponsor e non hanno un posto dove andare. Fanno pressione sulle ambasciate dei loro Paesi, spesso inadempienti, a volte corrotte, perché si assumano la responsabilità dei rimpatri, o perché trattino con le autorità libanesi nei casi di abuso.

    Con l’aiuto di libanesi alleati, organizzano manifestazioni e proteste, rischiando l’arresto, la persecuzione e la deportazione, contro il razzismo quotidiano e per la caduta, una volta per tutte, della kafala. Le problematiche enormi che la kafala porta con sé non sono più un segreto, un numero crescente di organizzazioni e attivisti libanesi e internazionali cercano di far luce sulla palese e sistematica violazione di diritti umani che si consuma quotidianamente nel Paese.

    Gli effetti della crisi

    A qualche estemporanea dichiarazione dal ministero del Lavoro sull’intenzione di riformare il sistema, però, è seguita l’ennesima procrastinazione. “Con tutti i problemi di questo Paese, non vorremo mica occuparci delle lavoratrici domestiche?” è il succo delle risposte istituzionali. La recente crisi economica ha portato l’inflazione alle stelle. E anche in Libano è arrivato il coronavirus, che ha costretto al lockdown tutto il Paese, paurosamente cosciente della latenza di un sistema di sanità pubblica. Ancora una volta il dibattito sulla kafala è stato posticipato, con sponsor in piena crisi economica che non si sognano di pagare le lavoratrici e che, se lo fanno, lo fanno nella svalutatissima lira libanese; con tutti chiusi in casa, anche quando ciò significa respirare l’aria del proprio kafeel aguzzino.

    Ma la protesta delle domestiche immigrate cresce. Nei mesi scorsi centinaia di donne africane hanno sfilato per le strade di Beirut cantando «Yuskut, yuskut nizam-el-kafala»: vogliamo la caduta della kafala. E non si fermeranno prima di vederla cadere.

    (testo di Elena Fassi – foto di Robin Hammond / Panos / Luz)

    L’aiuto del Celim alle donne

    Violenze sessuali, gravidanze indesiderate, abusi, percosse, sfruttamento: è il trattamento riservato a molte donne africane, immigrate in Libano attraverso il sistema della kafala. Alcune di esse riescono a fuggire dalle case dove vengono sfruttate e trovano rifugio nei centri di accoglienza per lavoratrici migranti allestiti dalla Caritas. Qui lavorano gli operatori dell’Ong di Milano Celim. celim

    «Forniamo aiuto e speranza alle donne fuggite dai loro carnefici. Anzitutto protezione, pasti caldi, assistenza medica, psicologica e legale», spiegano i responsabili del progetto “Securing Women Migration Cycle”, realizzato insieme a Cvm, CeSpi, Caritas Libano e Caritas Etiopia, grazie al contributo dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo. «In tre anni – continuano gli operatori di Celim -, intendiamo ospitare e aiutare oltre 1.500 donne negli shelter di Beirut. Parallelamente, in Etiopia organizziamo corsi di formazione professionale per far conoscere i diritti ai migranti».

    Tutti possono aiutare le donne vittime della kafala. «Con 20 euro si regala un kit igienico-sanitario a una migrante, con 70 euro un corso di formazione per dodici donne in Etiopia, con 100 euro si migliora le dotazioni di un rifugio in Etiopia, con 200 euro si offre supporto legale e psicologico in Libano». Per contattare il Celim: tel +390258317810, mail: celim@celim.it

    (Enrico Casale)

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    15 Novembre 2020 0 commento
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  • FOCUS

    Libano | Domestiche etiopi, sfruttate e abbandonate

    di Enrico Casale 24 Giugno 2020
    24 Giugno 2020

    Tempo di lettura stimato: 2 minuti Senza lavoro. Senza paga. Senza una casa. Le lavoratrici domestiche etiopi non sapevano più dove andare e si sono riunite davanti al loro consolato in Libano e lì si sono…

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