di Danilo Trippetta – Centro Studi Amistades
Dal sogno mondiale al risveglio sociale, la Generazione Z marocchina guarda al pallone per capire sé stessa e il futuro del Paese. Lo sport, per ora, unisce ciò che la politica spesso divide. Ma la Gen Z, quella che tifa, gioca e commenta, non si accontenta più di simboli: chiede opportunità, voce, futuro.
In Marocco, il calcio non è mai stato solo un gioco. È memoria, politica, appartenenza. È il linguaggio più immediato attraverso cui un Paese racconta sé stesso, tra gloria e contraddizioni.
Dopo l’exploit della nazionale maggiore ai Mondiali del Qatar 2022 (prima squadra africana della storia a raggiungere una semifinale) e la recente vittoria del mondiale Under 20, il Marocco si è ritrovato improvvisamente al centro del mondo. Ma il trionfo sportivo ha messo in luce qualcosa di più profondo e a volte contrapposto: una generazione in cerca di riscatto e un sistema politico che ha saputo trasformare il pallone in strumento di consenso e di immagine internazionale.
A tredici anni dalla Primavera araba, mentre i vicini nordafricani affrontano instabilità o stagnazione, il Regno di Mohammed VI si presenta come un’eccezione stabile. Tuttavia, dietro la vetrina del successo sportivo e delle riforme controllate, la gioventù marocchina (quella connessa, istruita e spesso disoccupata) vive un sentimento ambiguo tra orgoglio e frustrazione, appartenenza e distanza. Non c’è nulla di casuale nel successo calcistico del Marocco. Da anni il Regno investe nello sport come architettura di soft power.
L’Accademia Mohammed VI di Salé, inaugurata nel 2009, ne è il simbolo più eloquente: un centro d’eccellenza voluto direttamente dal sovrano, dove si formano non solo calciatori ma ambasciatori culturali. Da lì sono usciti molti protagonisti della nazionale marocchina di calcio (Achraf Hakimi, Youssef En-Nesyri, Azzedine Ounahi) volti di un Marocco moderno, globale e fedele alla propria monarchia. Dietro le reti segnate al Qatar, però, c’è una strategia più ampia: rafforzare l’immagine del Paese come potenza stabile e progressiva in un Nord Africa spesso percepito come fragile. In questo senso, la vittoria calcistica diventa un messaggio politico: il Marocco è “diverso”, affidabile, capace di parlare sia all’Africa sia all’Europa.
Primavera araba: la transizione congelata
Nel 2011, Rabat non conobbe il caos di Tunisi o del Cairo. Il Movimento 20 Febbraio, composto da giovani, studenti e intellettuali, riempì le piazze chiedendo riforme, maggiore giustizia sociale e un reale ampliamento dei diritti. La monarchia rispose con tempismo e abilità, annunciando una nuova Costituzione e promettendo un sistema più partecipativo e orientato all’equità. Tuttavia, a queste aperture formali si affiancarono rapidamente pratiche di repressione selettiva rivolte ai segmenti più attivi del movimento, insieme al progressivo diluirsi delle promesse di tutela socio-economica. Nonostante il linguaggio del rinnovamento, la struttura del potere rimase sostanzialmente invariata, preservando la continuità delle élite e confinando l’ondata di mobilitazione giovanile entro limiti controllabili.
Da allora, il Paese è rimasto in una zona grigia politica: sufficientemente aperto per evitare la rivolta, ma mai davvero riformato. Il potere del Re – Amir al-Mu’minin, “Comandante dei credenti” – resta ampio e intoccabile; i partiti agiscono in un campo delimitato; la stampa è vivace ma vigilata.
Per la Generazione Z marocchina cresciuta nei grandi centri urbani, immersa negli anni della rivoluzione digitale e dotata di una familiarità quotidiana con linguaggi globali, questo equilibrio appare sempre più anacronistico. È soprattutto tra i giovani delle città, connessi, socialmente esposti e culturalmente ibridati, che emerge una distanza crescente dalle forme tradizionali di partecipazione politica, percepite come poco accessibili o scarsamente permeabili. Al contrario, per i loro coetanei dei piccoli centri e dei villaggi, soprattutto nel sud del paese, meno digitalizzati e spesso più radicati in contesti comunitari tradizionali, questo scarto generazionale risulta meno netto.
All’interno di questo quadro territoriale si innesta con particolare rilevanza la dimensione di genere. Le giovani donne urbane della Generazione Z, più esposte ai codici della modernità globale ma allo stesso tempo confrontate con resistenze sociali persistenti, vivono un duplice margine: da un lato rivendicano maggiore autonomia, visibilità e partecipazione; dall’altro si scontrano con barriere che limitano l’accesso agli spazi decisionali, alla sfera pubblica e in alcuni casi anche a quelli sportivi. I coetanei uomini, sebbene non immuni dalle difficoltà strutturali del Paese, si muovono spesso con maggiore libertà nella costruzione di forme alternative di protagonismo giovanile.
In questo scenario, il calcio offre ai giovani urbani una piattaforma alternativa di espressione identitaria: se la politica formale rimane chiusa, opaca o non sufficientemente rappresentativa, lo sport diventa un luogo simbolico in cui riconoscersi, una forma di cittadinanza emotiva capace di canalizzare appartenenza, orgoglio e narrazione collettiva.

La generazione del Qatar
Quando la nazionale maggiore nel 2022 sconfisse la Spagna ai rigori nei quarti di finale del Mondiale, le immagini delle feste si diffusero in tutto il mondo come manifestazioni collettive di orgoglio, ma anche di rivalsa sociale.
Le nuove generazioni, dentro e fuori dal Paese, videro in quella squadra il riflesso di sé: un gruppo multiculturale, figlio della diaspora, capace di affermare la propria identità in un contesto globale. La GenZ marocchina, che si muove tra Casablanca e TikTok, tra francese, arabo e inglese, ha riconosciuto in quei volti un equilibrio possibile tra radici e futuro. “Non è solo una squadra, è un’idea di Marocco. Un Paese che non vuole scegliere tra Africa ed Europa, ma essere entrambi.” scriveva allora il quotidiano Le Matin.
La diaspora come capitale geopolitico
Più della metà dei giocatori della nazionale è nata fuori dal Marocco: Francia, Belgio, Spagna, Paesi Bassi. Questo dato, apparentemente tecnico, ha un valore politico enorme. Il Regno ha saputo trasformare la diaspora marocchina (quasi cinque milioni di persone come dichiarato dal Dipartimento dei Marocchini all’estero del Ministero degli Esteri del Regnodel Marocco) in risorsa diplomatica e culturale.
Il ritorno dei “figli d’Europa” in maglia rossa non è solo una questione di calcio: è una forma di diplomazia sociale. Attraverso loro, il Marocco costruisce un ponte tra le comunità della diaspora e il Paese d’origine, alimentando un senso di appartenenza transnazionale che sfida i confini tradizionali della cittadinanza.
Ma il fenomeno è anche specchio di una realtà complessa con molti giovani marocchini, soprattutto nelle periferie urbane, che vedono nella migrazione ancora l’unica via per realizzarsi. E mentre applaudono i successi dei coetanei “rientrati”, convivono con disoccupazione e mancanza di prospettive.
Il nuovo contesto geopolitico: stabilità e ambizione
Sul piano internazionale, il Marocco gode di una fase di ascesa diplomatica. Rabat è partner privilegiato dell’Unione Europea, alleato degli Stati Uniti e attore chiave nel continente africano. Ha normalizzato le relazioni con Israele, intensificato la cooperazione economica con i Paesi del Golfo e si propone come ponte tra Mediterraneo e Sahel.
Il calcio rientra pienamente in questa architettura geopolitica: ospitare eventi internazionali, candidarsi ai Mondiali 2030 insieme alla Spagna e al Portogallo, significa affermare la legittimità del Regno come potenza regionale equilibrata, affidabile e moderna. Eppure, questa proiezione globale rischia di accentuare il divario tra l’immagine esterna e la realtà interna.
Le diseguaglianze territoriali, la disoccupazione giovanile (oltre il 30%), la centralità del potere monarchico e i limiti della libertà d’espressione restano nodi irrisolti.
Il calcio, in questo senso, è al tempo stesso specchio e anestetico: riflette il talento e le contraddizioni di un Paese che vuole apparire unito, ma che spesso vive di frammentazioni silenziose.

Le proteste della Gen Z 212: nuova ondata, nuove domande
Negli ultimi mesi, una nuova ondata di mobilitazione giovanile ha scosso il Marocco. Il collettivo anonimo e decentralizzato denominato GenZ 212 ha lanciato una serie di manifestazioni nazionali in più di dieci città, tra cui Rabat, Casablanca, Marrakesh, Agadir e Oujda, per richiamare l’attenzione su istruzione, sanità, occupazione e corruzione.
Le proteste sono esplose in seguito allo scandalo che ha coinvolto un ospedale pubblico di Agadir, dove otto donne sono morte durante un parto cesareo: un episodio drammatico che ha rappresentato la scintilla capace di trasformare il malcontento latente in rabbia collettiva, soprattutto tra i giovani. In questo clima, le rivendicazioni della piazza si sono concentrate sulla necessità di migliorare in modo urgente le infrastrutture sanitarie e di elevare la qualità dei servizi pubblici, considerati inadeguati rispetto ai bisogni reali della popolazione. Accanto alle criticità della sanità, si è fatta strada anche una richiesta pressante di riforme profonde nel sistema educativo, che i manifestanti vorrebbero più trasparente, meglio finanziato e in grado di offrire reali opportunità di crescita.
Un ulteriore punto di tensione riguarda la gestione della spesa pubblica, contestata per la mancanza di chiarezza e di equità: molti giovani denunciano infatti l’apparente contraddizione tra gli ingenti investimenti destinati ai mega-eventi sportivi e le difficoltà quotidiane di chi vive in un Paese dove la disoccupazione continua a colpire duramente. A ciò si aggiunge la richiesta di liberare i detenuti riconosciuti come manifestanti pacifici e di avviare finalmente un dialogo autentico con il governo, affinché la protesta non resti solo un grido di dolore, ma si trasformi in un percorso politico di ascolto, riforma e riconciliazione.
«Stadi sì, ma dove sono gli ospedali?» recitava uno slogan tra i manifestanti. Sul fronte dell’autorità, la risposta è stata rapida e dura. Sono stati registrati arresti massicci, centinaia di giovani fermati e alcuni processi già attivati. Organizzazioni internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch segnalano uso eccessivo della forza da parte delle forze di sicurezza e richieste di inchiesta indipendente.
Questa nuova mobilitazione, guidata da una generazione digitalmente abile e senza leadership tradizionale, ridefinisce il rapporto tra giovani, società e politica in Marocco. Anche il calcio (simbolo consolidato dello Stato-nazione) entra in collisione con le domande di giustizia sociale, priorità pubbliche e rappresentanza.
Il Marocco gioca oggi su due campi: quello della geopolitica e quello della gioventù. Sul primo, ha saputo costruire una reputazione solida, basata su stabilità, cultura e apertura selettiva. Sul secondo, deve ancora vincere la sfida più importante: quella di una generazione che vuole essere protagonista, non spettatrice. Il pallone, in fondo, non è solo un gioco. È una bussola geopolitica, un modo per leggere la società, una metafora del potere e del sogno. E, nel Marocco di oggi, come nella sua nazionale, la partita più difficile non si gioca tra i pali, ma nel cuore di una generazione che chiede, semplicemente, di poter correre verso il proprio futuro.



