L’Africa sfuggente | di Mario Giro

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«Tutto sta cambiando nel continente che noi occidentali ci ostiniamo a considerare immobile e arretrato»: l’analisi di un autorevole africanista.

Pubblichiamo alcuni stralci di Global Africa, libro fresco di stampa firmato da Mario Giro. Il tentativo riuscito di mettere a fuoco un continente in piena fibrillazione, alla ricerca di una sua via, tra il vecchio che resiste e il nuovo che si afferma

L’Africa è già cambiata e non ce ne siamo accorti: potrebbe essere il sunto di queste pagine che cercano di delineare alcune trasformazioni già avvenute. Obnubilati dalle migrazioni e dall’annunciata apocalisse demografica, gli europei guardano al continente nero come ad una minaccia per la loro tranquillità. Siamo pigramente abituati a guardare all’Africa attraverso dei binomi semplificati: guerra/pace; sviluppo/sottosviluppo; malattie/povertà; migranti/frontiere; ordine/disordine e così via. Questo continente ci pare diverso dagli altri e “speciale”, dando a tale termine un’accezione in genere negativa. Ma l’Africa reagisce come tutti alla globalizzazione e alle sue conseguenze e percorre già nuove strade, rispondendo a modo suo.

RIVOLUZIONE ANTROPOLOGICA

Cover GLOBAL AFRICAL’Africa non aspetta nessuno: una rivoluzione dell’io ha trasformata e resa molto differente dall’immagine che ce ne siamo fatti. Certamente vi sono conflitti, pandemie e crisi. Tuttavia questo non spiega tutto. La stessa vicenda migratoria – che tanto angoscia gli europei – viene vissuta dai giovani africani in maniera insolita rispetto all’idea prevalente. Si tratta piuttosto di un’”avventura” nell’oceano globalizzato e burrascoso delle relazioni internazionali: pionieri di una nuova fase, i giovani africani cercano un posto nella globalizzazione spinti da un inatteso protagonismo. A tale riguardo è necessario che l’Europa (il vicino geografico e storico più prossimo) riformi il suo pensiero e il suo linguaggio alla ricerca di un partenariato nuovo, meno dipendente da interessi immediati e più lungimirante.

L’Africa è da sempre una terra di movimenti e in movimento. Ora sta vivendo la globalizzazione con l’impeto di chi parte alla ricerca di nuove opportunità e con un animo positivo, mentre all’opposto l’Europa e l’Occidente hanno uno sguardo pessimistico sul nuovo ciclo, almeno dalla crisi del 2007-2008. Ciò crea un paradosso che mette in crisi le nostre convinzioni e cioè che l’Africa sia inattiva e sempre in ritardo. I giovani africani (la maggioranza della popolazione) si muovono in maniera individualistica e indipendente e non escludono nessuna opzione. È avvenuta una rivoluzione antropologica che sta profondamente cambiando la famiglia tradizionale e le relazioni tra età: urbanizzazione, facilità di trasporto, mutamenti sociali provocano acute trasformazioni.

GLOBALIZZATI E SOLI

Non tutto ciò che sta cambiando è positivo: molto avviene in maniera drastica e violenta, intriso di un’intensa predicazione dell’“avidità” che si accompagna alla globalizzazione ad ogni latitudine. Anche in Africa i giovani sono attratti dalla “teologia della prosperità” basata su una logica materialistica. Mentre i padri pensavano agli ideali di unità e africanità, i figli sono molto più interessati a sé stessi, al destino individuale e al benessere. Si sentono traditi dai sogni dei padri che si sono dissolti nel degrado e in una crisi infinita. Tutto ciò fa emergere una domanda di senso e di orientamento, posta alla società africana nel suo complesso, agli Stati e alle leadership ma anche alle chiese storiche, cattolica e protestanti.

Come ovunque nel mondo, la globalizzazione ha trasmesso in Africa la sua inquietudine per l’identità che va ad intrecciarsi con la tradizionale disputa etnica locale(…). Ma ciò che colpisce di più è la crisi del senso di appartenenza nelle giovani generazioni: mescolati nelle grandi periferie urbane e considerati un peso, i giovani africani appaiono sempre più come dei “fuori-etnia”, soli e senza legami, abbandonati a loro stessi nel grande mare delle opportunità -ma anche dei tragici fallimenti- che la globalizzazione fa brillare davanti ai loro occhi. Tante storie odierne di migrazione o di avventure travolgenti e drammatiche, dipendono essenzialmente da questo.

Soffocati da istituzioni autoritarie e corrotte; chiusi fuori da una famiglia che non ce la fa più a sostenerli; marginali in etnie e lignaggi ancora in mano agli anziani; con il rischio di ammalarsi o di morire a causa della violenza ma anche sottoposti ad un incessante bombardamento di notizie sulle opportunità materiali, i giovani africani cercano una strada nella solitudine. Nulla della loro antica società sembra poterli più aiutare e divengono facili prede per ogni avventuriero. Ma la spinta a liberarsi e al riuscire fa pure nascere in alcuni idee e speranze nuove, un’idea nuova di paese e di convivenza.

C’È CHI DICE NO

In queste pagine si tenta un’analisi tra il vecchio che resiste e il nuovo che si afferma (…). In Africa tale passaggio d’epoca è complesso e pieno di contraddizioni tanto da consigliare di astenersi da giudizi semplificati e frettolosi. Scrivendo ho avuto davanti agli occhi le storie di due africani contemporanei totalmente immersi in questa ricerca di senso. Appartengono a generazioni diverse, uno giovane e uno quasi anziano, e provengono da uno Stato tra i più martoriati ed emblematici dell’attuale vicenda africana: la Repubblica Democratica del Congo. Si tratta del medico Denis Mukwege, specializzato nella cura delle conseguenze dello stupro e Nobel per la pace, e del giovane doganiere Floribert Bwana Chua, ucciso per non aver accettato di farsi corrompere. Due uomini normali, espressioni della resistenza al caos che in Congo e in Africa tutta prende l’aspetto odioso della violenza diffusa e della corruzione. Sono due luci accese per un paese che ha vissuto l’inferno di una terribile guerra che ancora provoca tragedie e strascichi ininterrotti. Due luci nel buio della nostra memoria che sovente paragona il Congo e l’Africa ad un buco nero della storia e della coscienza. In tale oscurità le due luci brillano e parlano del futuro.

Floribert aveva 26 anni quando fu ucciso nel 2007. Membro della Comunità di Sant’Egidio del Kivu, si interessava di politica e società civile. Un giovane impegnato ed inquieto, dai tanti interessi e dalle aspettative molteplici. La sua professione era responsabile del controllo merci alle dogane. Passando attraverso la difficile storia recente della sua terra, faceva parte di quella generazione che desidera ricostruire il proprio Paese dopo la devastazione, con tutte le contraddizioni legate alla ricerca della pace, alla convivenza tra etnie, al rapporto con il potere. Floribert è uno dei tanti ragazzi africani che non scappano ma cercano ancora ciò che può far risorgere il proprio continente (…). Sapeva quanto fosse necessario battersi contro l’avidità e la corruzione, terribili flagelli per tutta l’Africa. Dalla sua esperienza con Sant’Egidio aveva imparato l’amore per i poveri: partire dai più piccoli e dai bambini di strada, il modo migliore per capire come costruire un futuro senza esclusioni. E poi aveva imparato la gratuità, arma essenziale in un mondo travolto da una recente e disperata avidità, dandosi una regola: non si è mai così poveri da non poter far qualcosa per qualcuno più povero di te (…). Era un giovane responsabile e quando provarono a corromperlo per far transitare dalla frontiera carichi di cibo avariato, lui non cedette. Gli offrirono più soldi ma non arretrò. Per questo dopo essere stato minacciato, fu rapito, brutalmente torturato e ucciso a soli 26 anni.

IL DOTTORE DELLE DONNE

Anche Denis, 63 anni, ha incontrato la terribile esperienza della guerra che gli ha cambiato la vita. Medico impegnato, ha dovuto fare i conti con un altro terribile lascito del conflitto: la violenza diffusa, frutto delle armi facili ma soprattutto di una convivenza civile divenuta ardua tra diffidenze, rancori e sospetto. Denis ha fondato nel ‘98 un ospedale dove si curano le ferite da guerra per poi specializzarsi nella parte più fragile della popolazione: le donne, le bambine strappate “nel corpo e nell’animo” da una cieca violenza. È divenuto così il massimo esperto mondiale della chirurgia dei danni da stupro e da violenza sessuale, terribile arma da guerra usata contro le popolazioni civili.

Negli anni sono passate per il suo ospedale oltre 50.000 donne. «Le mie pazienti – dice- sono come fazzoletti strappati: occorre riprendere filo per filo e riallacciarli». In Congo la guerra è stata soprattutto una guerra contro i civili e ancora continua non solo negli scontri ma anche nell’odio, nell’isolamento e nella stigmatizzazione delle vittime. In una terra bagnata dal sangue e che ha sofferto in maniera inimmaginabile, per Denis e Floribert il male si è incarnato con l’apparenza di qualcosa che sembra banale e scontato, qualcosa a cui tutti si sono abituati: tutti sono violenti, tutti sono corrotti. Entrambi hanno dimostrato che si può dire no: hanno saputo reagire, riconoscendo il male davanti a loro, indicandolo per nome e, ben sapendo di rischiare, hanno deciso di resistere. Floribert è stato ucciso, Denis ha rischiato più volte di esserlo. Entrano a far parte di quella schiera di resistenti che danno senso alla storia e ne illuminano il tumulto, anche se si tratta di una storia che spesso consideriamo minore, perché storia di un paese povero e isolato come il Congo. Se quella terra martoriata dà alla luce figli così grandi, significa che la luce non si è spenta. La resurrezione dell’Africa passa anche per il loro “no”.

INESPUGNABILE

Una volta Erri De Luca disse che «Napoli può essere conquistata ma resta inespugnabile»: ha un’identità troppo forte. Così è l’Africa: inespugnabile. Gli africani lo percepiscono. Ultimo tra i continenti, l’Africa è stata oltraggiata e saccheggiata in ogni modo, dalla tratta al colonialismo fino al neocolonialismo predatorio più recente. Ma, per quanti affari possa concludere e per quante ricchezze possa depredare, non ci sarà europeo, cinese, arabo, americano o russo che riuscirà mai a farla completamente sua.

L’Africa è vicina ma resta lontana allo stesso tempo. Le “anime del popolo nero”, per dirla alla W.E.B. Du Bois, sono plurime e sfuggenti, forse perché poco codificate o trascritte, nascoste dietro il “velo del colore”. Nelle relazioni con gli altri continenti gli africani sono dotati di una resilienza a tutta prova. Nel corso dei secoli hanno elaborato una strategia peculiare per resistere allo stigma del colore, alle “sfuriate” di arabi ed europei, alle irritazioni, collere e al disprezzo di ogni altra stirpe.

Oggi, davanti alla nostra intolleranza anti-migratoria, si avvalgono della medesima resistenza passiva che permette di sormontare umiliazioni e ostacoli, consci che nessun “muro” servirà a granché, pronti a rischiare la vita senza attendersi nulla da nessuno. Che nel resto del mondo vi siano governi “aperti” o “chiusi” nulla cambia per gli africani, in specie giovani: sanno che per loro tutto è più difficile ma anche che, con ostinazione paziente, alla fine andranno dove vogliono. Comunitari e individualisti allo stesso tempo, forse come nessun’altra civiltà riesce ad essere davvero, proseguono il loro dolente cammino di speranza, superando in silenzio ogni avversità. Pesa su di loro un razzismo (espresso o occulto) quasi generale senza che ciò interrompa il loro andare. Continueranno a venire, silenziosi e caparbi, e rappresenteranno l’”altro” in mezzo a noi, segno di contraddizione per le nostre ossessive e un po’ risibili ricerche identitarie. Ecco perché, di fronte a ciò, l’unico atteggiamento valido da tenere è soltanto uno: il rispetto.

(Mario Giro)


mario giroMario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Guerini e Associati Global Africa. La nuova realtà delle migrazioni: il volto di un continente in movimento.

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