#jesuisnguelewa, per ricordare 39 nigerine rapite cui nessuno sembra importare

di Enrico Casale
niger

di Luciana De Michele
Era la notte del 2 luglio 2017, quando al villaggio di Nguéléwa, nella regione di Diffa, in Niger, alcuni elementi dell’organizzazione islamista terroristica Boko Haram hanno seminato il terrore. «Dopo aver ammazzato nove persone, i terroristi hanno rapito 39 donne e bambine», testimonia Touda Mamane Goni, responsabile dell’area gioventù di Alternative Espace Citoyen.

Il 18 gennaio, a 200 giorni dal rapimento, l’associazione nigerina ha lanciato una campagna mediatica e sui social network con l’hashtag #jesuisnguelewa per sensibilizzare sul fatto, ignorato dai più.

«Il nostro stesso governo tace, a parte una dichiarazione del presidente subito dopo l’accaduto. È stato proprio questo silenzio a motivarci. Vogliamo mobilitare l’opinione pubblica e la società civile regionale e internazionale a sostegno delle 39 donne rapite, di cui non sappiamo più niente, alla luce di quanto successe in favore delle ragazze catturate da Boko Haram a Chibok, in Nigeria. Per loro, la first lady americana (Michelle Obama, ndr) si era impegnata nella campagna “Brings back ours girls”. Dal 2 luglio, nessun abitante di Nguéléwa passa la notte al villaggio, tutti hanno paura. Oggi, migliaia di bambini di quei villaggi non va più a scuola, a causa di Boko Haram».

È così che il terrore e il problema dell’insicurezza della popolazione in Niger si aggiunge a quello della povertà, dell’accesso all’acqua potabile, della scarsa sovranità alimentare, della crisi nel settore dell’educazione, oltre a quello, come Goni stesso afferma, della corruzione e della cattiva gestione del governo. Tutto questo accade in un Paese di circa 20 milioni di abitanti, al penultimo posto nella classifica dell’Indice di sviluppo umano, nonostante sia ricco di uranio, gas naturale e petrolio: una nazione preziosa tanto per movimenti terroristi e bande criminali – è il crocevia del traffico di armi, droga e migranti – che per i Paesi europei, per motivi strategici e economici.

Proprio il 18 gennaio, giorno del lancio della campagna #jesuisngalewa e all’indomani della votazione in Italia favorevole all’invio di militari in Niger, è avvenuto un altro attacco di Boko Haram a Toumour, durante il quale sono morti 7 soldati nigerini, molto materiale è stato distrutto e sono stati portati via viveri e munizioni.

L’insicurezza si manifesta soprattutto in quest’area, nella zona del Lago Ciad, dove Boko Haram sembra continuare a mantenere il dominio strategico, nonostante il dispiegamento di forze europee e americane e il sostegno dalle prime – Francia in prima linea, con 4.000 uomini – fornito alla formazione militare mista africana Forza G5 Sahel (Mauritania, Niger, Ciad, Mali, Burkina Faso).

Goni: «L’altro giorno c’è stato un altro attacco, nonostante qui ci siano droni francesi, l’esercito americano, l’esercito canadese, quello tedesco e ora si aggiungeranno 470 uomini italiani. Questo è troppo, non possiamo accettare l’imperialismo, questo è neocolonialismo! Nel 21° secolo eserciti stranieri vengono a difendere il territorio, mentre questa dovrebbe essere la missione delle nostre forze aemate. È vero che la questione del terrorismo scavalca le frontiere, ma bisogna immaginare altri metodi di lotta, e non l’invasione di militari sul nostro territorio. Noi pensiamo che quelle truppe siano qui per altre ragioni, tra cui quella di accaparrarsi le ricchezze del nostro sottosuolo, piuttosto che difendere il territorio dal terrorismo».

E mentre la politica e la geopolitica giocano le loro pedine nel nuovo scacchiere Niger, nessuno sa cosa ne è stato delle 39 donne e ragazzine rapite, tanto meno i loro familiari.

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