L’instabilità della Libia minaccia il Ciad

di Valentina Milani

L’11 aprile scorso, a urne aperte per le elezioni presidenziali, il gruppo armato Fronte per l’Alternanza e la Concordia in Ciad (Fact) ha attraversato il confine libico ed è entrato nel nord del Ciad con l’obiettivo di “liberare il Paese dalla dittatura” di Idris Deby.

Il governo di N’Djamena ha riferito di “un’incursione di diverse colonne di veicoli pesantemente armati”, respinta dall’aviazione ciadiana, condannando quindi “questo ennesimo tentativo di destabilizzare il Ciad dalla Libia”. Un’incursione analoga ci fu infatti all’inizio del 2019, quando i miliziani del gruppo Unione delle forze della resistenza (Ufr) lasciarono il Fezzan e avanzarono nel Nord del Ciad con l’obiettivo di arrivare a N’Djamena, a 1.000 chilometri di distanza, ma vennero fermati, in quell’occasione, dai caccia della missione francese Barkhane.

Parigi oggi non appare intenzionata a intervenire direttamente e a differenza di allora, l’incursione non ha suscitato particolare allarme nella comunità internazionale, anche se la tregua raggiunta in Libia e il previsto ritiro dal Paese di tutti i combattenti stranieri, ancora in divenire, solleva interrogativi sul futuro dei mercenari africani impegnati da anni nel conflitto libico.

Sono quattro i gruppi armati dell’opposizione ciadiana presenti in Libia”, per complessivi 2.000 uomini, di cui “più della metà” ha combattuto per il generale Khalifa Haftar, ha detto Claudia Gazzini, analista dell’International Crisis Group, in un colloquio con InfoAfrica/Africa Rivista. Ma l’incursione dei giorni scorsi è stata lanciata dal solo Fact, senza il sostegno delle altre organizzazione ciadiane. “Il Fact è in Libia da tanti anni”, e se “fino al 2016 gravitava nella sfera di influenza del governo di Tripoli, tra fine 2018 e inizio 2019, quando Haftar è entrato nel sud della Libia, è passato dalla sua parte”. La sua base era “nella zona di Jufra, nel sud-ovest libico”.  Ad oggi, quel che è certo, ha detto Gazzini, è che “il Fact ha attraversato il confine libico, è entrato nel Nord del Ciad, è arrivato a Zouarké e lì si è fermato”. I miliziani “non sono entrati nelle cittadine dove ci sono basi militari, non sono entrati a Wour, e quindi la forza militare ciadiana non è intervenuta”.

Fino ad adesso non ci sono stati scontri – ha aggiunto – in parte perché sono stati evitati i luoghi dove sono presenti i militari ciadiani e in parte perché le forze ciadiane non hanno ancora veramente attaccato. Ci sono stati due raid aerei ciadiani e i ribelli hanno detto di non aver subito perdite”, sostiene l’analista.

Questi i fatti certi al momento, ha precisato Gazzini, rimarcando anche che “nessuno sembra particolarmente allarmato da questa avanzata, a differenza del 2019, quando ci fu l’incursione aerea francese”.

Quindi ad oggi si possono solo fare ipotesi su obiettivi, eventuali appoggi e sviluppi di tale incursione, ha proseguito Gazzini, perché se è vero che “il Fact era alleato con Haftar, è presumibile che sia dotato di armi di provenienza emiratina o russa, perché i due grandi alleati di Haftar sono il gruppo russo Wagner e gli Emirati”, ma “la domanda vera è se si tratti di armi che si sono semplicemente portate via oppure che gli sono state date per un’incursione in qualche modo sostenuta”.

Ma a quale scopo? Il gruppo armato è entrato in Ciad nel giorno delle elezioni presidenziali e questo potrebbe fare pensare che “il sesto mandato di Deby faccia storcere il naso a qualcuno”, ma il presidente ciadiano è un alleato strategico della comunità internazionale nella lotta al terrorismo, per cui “non avrebbe senso”.

Si potrebbe pensare a “un certo appoggio a questa incursione per favorire l’apertura di un negoziato per includere questi gruppi armati in un futuro del Ciad” e garantire così la loro uscita di scena dalla Libia, a fronte della “volontà internazionale di smobilitare i gruppi armati stranieri in Libia e riportarli nei loro Paesi”, come previsto dall’accordo di pace raggiunto a Ginevra lo scorso ottobre.

Perché se è vero che in Libia sono più numerosi i mercenari sudanesi, circa 10.000, è anche vero, ha ricordato Gazzini, che “in Sudan c’è un processo di pace, ci sono gli accordi di Juba” e “parte delle forze che hanno aderito agli accordi di Juba hanno già rimpatriato alcuni dei loro uomini”. In Ciad, invece, il presidente Deby “ha sempre considerato questi oppositori dei terroristi”.

Ma c’è anche un altro possibile scenario, che vedrebbe coinvolto in questo caso il gruppo Wagner: “Se ci fosse un certo appoggio Wagner, che è presente nel Sud della Libia, nelle stesse aree dove sono stati questi gruppi in questi ultimi anni, si potrebbe allora pensare a qualche interesse economico?“, è l’interrogativo che si pone l’analista. “In questo caso – ha spiegato – l’obiettivo non sarebbe N’Djamena, ma consolidare una zona di controllo nel nord del paese per sfruttarne le risorse minerarie”.

Bisognerà attendere gli sviluppi di questa incursione per comprenderla meglio, ha concluso Gazzini, e per capire anche se la tregua in atto oggi in Libia possa diventare fonte di instabilità per il Ciad: “E’ una domanda aperta, bisogna capire se gli altri gruppi ciadiani si uniscono, che cosa faranno i partner internazionali, e rimane comunque il problema di come risolvere il loro rientro”.

“In Ciad, a differenza del Sudan, non c’è un processo politico di dialogo in cui possono inserirsi. Chissà, forse qualcuno sta cercando di forzare la mano e far sì che si apra un negoziato con Deby?”.

(Simona Salvi) – Immagine: US Army/Sgt. Steven Lewis

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