Sono stata all’inferno, di Andrea C. Hoffmann, Patience I.

di AFRICA
Sono stata all’inferno, di Andrea C. Hoffmann, Patience I.

La notizia del rilascio di 82 delle 276 ragazze rapite, tre anni fa, in una scuola di Chibok (Stato del Borno) mi ha sorpreso, per mera coincidenza, proprio mentre ero immerso nella lettura di questo libro. E una realtà a me nota, ma “da lontano” – non conosco la Nigeria di persona –, è come se avesse acquistato tridimensionalità. I volti delle ragazze che abbiamo visto nelle poche immagini fin qui arrivate sono simili a quello della giovane mamma con bambina che ci guarda dalla copertina. E che è proprio Patience, la protagonista di questa testimonianza, che è probabilmente più potente in forma scritta di quanto non lo sarebbe in versione filmata. Anche perché alla giornalista tedesca – che nel libro si alterna al racconto della giovane rapita da Boko Haram per due volte, aiutando il lettore a contestualizzare – sono serviti lunghi giorni di delicato incontro, ancor più che di “intervista”, con Patience. La quale, a un certo punto, sembrava anche avere rinunciato a parlare.

Appena diciassettenne, Patience è già vedova: il marito, che le era stato imposto, viene ucciso da Boko Haram. Mesi dopo, si ritroverà, lei, cristiana, a essere la seconda moglie di un uomo che comunque ama. Intanto Boko Haram incombe sempre più. Sarà catturata, nelle prime settimane di gravidanza, insieme ad altre ragazze (quando era già a conoscenza delle ragazze di Chibok). Assiste impietrita a cose irriferibili (donne incinte sventrate, cannibalismo…). Con l’aiuto di un jihadista dal volto umano, che lei scopre essere stato cristiano, riesce a fuggire. Ma sarà ben presto catturata di nuovo. Ancora riuscirà a fuggire, grazie a un altro jihadista impietositosi di lei. Ritroverà fortuitamente, in un improvvisato campo profughi in Camerun, il marito. Ma anche lì piomba d’improvviso Boko Haram. Attacca e stermina gli uomini, tra cui il suo sposo Ishaku, di cui vedrà la testa mozzata. Poche ore dopo, partorisce. Da sola, in foresta. Riuscirà poi, aiutata dalle mogli dei soldati alla frontiera, a ritornare in Nigeria, a Maiduguri: ormai il suo villaggio è terra bruciata. Chi le dà la forza di andare avanti è Gift, che vuol dire “dono”: questo il nome che scelto per la sua bambina. «Non sono così ottimista per poter dire di essermi lasciata il peggio alle spalle, ma sono sicura che per me e Gift il meglio debba ancora venire».

Merito del libro è non solo di raccontarci una storia che andava fatta conoscere e di farci penetrare nella quotidianità delle prigioniere e prigionieri di Boko Haram, ma anche di farci entrare nell’ambiente culturale locale, con i suoi valori e anche le sue crudeltà: quando Patience ritrova i suoi cari, l’accoglienza non è quella che potremmo pensare. Sarà stata senz’altro “moglie” o comunque vittima di stupro – e qui lo stigma pesa più della pietà – dei jihadisti. Oppure, una potenziale kamikaze: «”Le mogli dei guerriglieri di Boko Haram sono spietate” dice Patience. “Molte si convertono durante la prigionia”. La fisso a lungo. “Ci hanno provato anche con te?” mi spingo a chiederle alla fine. Patience tiene lo sguardo fisso a terra. “Sì, certo” risponde a voce bassa, cullando sua figlia».

Questo libro, più di ogni altra cosa, ci fa entrare nell’anima di una giovane donna di cui, forse, non sospetteremmo tanta profondità di sguardo, di raziocinio, di sentimenti… e anche di vera fede. È una “testimonianza”, dunque, preziosa a molti livelli.

Per completezza, vanno segnalati altri titoli che si ricollegano a queste vicende: il recente Le ragazze rapite di Wolfgang Bauer (La Nuova Frontiera) e, per i più giovani, Ragazze rubate. Le storie delle ragazze rapite da Boko Haram di Viviana Mazza e Adaobi Tricia Nwaubani (Mondadori), oltre al racconto dell’esperienza di tre missionari rapiti e alla storia, diversa dalle precedenti ma sempre avente a che fare con l’islamismo nigeriano, di Safiya, scampata alla lapidazione.

Centauria, 2017, pp. 271, € 16,50

(Pier Maria Mazzola)

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