Padre Mosè, di Mussie Zerai

di AFRICA
Padre Mosè, di Mussie Zerai

Da poco nella quarantina e già candidato al Nobel per la Pace. Con il profetico nome con cui è stato battezzato, Mussie (che significa esattamente Mosè) si è ritrovato come predestinato a mettere in salvo dal mare, o da altre situazioni, un gran numero di migranti, soprattutto eritrei come lui. E non dall’alto, bensì memore del suo personale esodo, per quanto occorso in condizioni meno drammatiche.

Sbarca a Roma nel 1992, appena diciassettenne, in obbedienza all’impulso che sentiva dentro di partire, anche se proprio nel momento in cui per il suo Paese era finita una lunghissima guerra e si apriva ormai la strada all’indipendenza dall’Etiopia. Comincia facendo lavoretti – vendendo frutta in Piazza Vittorio, o facendo lo strillone – e sente di dover riannodare il filo della chiamata al sacerdozio che avverte chiara fin dagli anni eritrei. Diventerà sacerdote, ma solo nel 2010, allungando di anni gli studi teologici perché non ce la faceva a fare la vita del diligente seminarista: il suo impegno per gli altri immigrati come lui, ma in condizioni ben peggiori, comincia da subito, una vocazione lampante almeno quanto quella all’altare. Non per niente trova il suo inquadramento giusto in una congregazione, quella scalabriniana, votata agli emigrati. È il 2000 quando può affermare: «Ho pensato e ripensato tanto. E sono arrivato a una decisione: voglio diventare prete. Ma non un prete e basta. Voglio essere il prete dei migranti».

Il libro, steso con l’ausilio di Giuseppe Carrisi, giornalista Rai che si occupa di temi sociali e anche africani, è un’autobiografia che ci fa entrare nell’anima di un personaggio non comune. Molto giovane, già operava in centri di accoglienza e si dedicava alla conoscenza delle situazioni di degrado a Roma. Finché, nel 2004, una telefonata da un barcone al largo di Lampedusa farà in breve tempo diventare il suo numero di cellulare la password della speranza. «Ce lo avevano tutti – scrive a pag. 176 –. Eritrei, etiopi, somali, sudanesi… Scritto su un pezzo di carta, su un vestito, tatuato sulla pelle o scarabocchiato sul palmo della mano. Impresso nella memoria». Telefonate non solo dal mare aperto ma anche dal Sinai, o da altri Paesi africani di origine o di transito.

E intanto, denunciando gli orrori del regime di Asmara: egli stesso trovandosi vittima di un’aggressione, nel corso di una conferenza nella sede della Provincia di Roma e ritrovandosi poi col passaporto ritirato dalla sua ambasciata… Ma anche denunciando i balbettii politici (promesse mai mantenute per dare una degna sistemazione a comunità accampate in luoghi degradati) nonché i «disastrosi patti bilaterali tra Tripoli e le diverse cancellerie europee, Italia inclusa». Si parla ovviamente della Libia di Gheddafi; ma quel genere di patti è quello che si replica con il successivo accordo con la Turchia, e il più recente tentativo Gentiloni-Serraj.

Un libro dove non mancano i ricordi di vita più personali, come la relazione con la sua famiglia (toccante in particolare il rapporto col padre, che Mussie vede uscire di casa, ammanettato, quando ha quattro anni e che riuscirà a ritrovare brevemente, ormai adulto, solo in Nigeria). Un libro dove padre Mosè sembra vivere più vita di quanta ne possano contenere quarant’anni di esistenza.

Giunti, 2017, pp. 221, € 16,00

(Pier Maria Mazzola)

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