Le mani sulla terra dei Masai

di claudia

Le praterie del Loliondo, nel nord della Tanzania, potrebbero diventare una riserva naturale per i safari e la caccia commerciale. A farne le spese sarebbero migliaia di Masai che in quelle terre vivono e pascolano il loro bestiame. Il moltiplicarsi delle Aree Protette minaccia le comunità indigene, spesso allontanate a forza “per salvaguardare l’ambiente”. Il dilemma tra conservazione della natura e diritti dei nativi è scottante sull’intero pianeta

di Céline Camoin – foto di Luca Catalano Gonzaga

L’occhio del Ngorongoro scruta uno dei più bei panorami del pianeta. Ma l’antico vulcano ha perso ogni diritto sulle meraviglie terrestre a cui ha fatto da custode per millenni. L’equilibrio naturale costruitosi tra la fauna, la flora e le comunità autoctone è stato rotto, forse ormai irrimediabilmente. I Masai, fieri custodi di queste terre, sono stati costretti a rinunciare alla caccia di sussistenza, ufficialmente per preservare la fauna in pericolo. Adesso stanno perdendo anche l’unica alternativa consentita, l’allevamento, perché i loro pascoli sono stati progressivamente ridotti mentre vengono raggruppate le comunità, che demograficamente stanno crescendo. Emarginati, i Masai si ritrovano faccia a faccia con un destino che appare cupo quanto l’interno delle loro capanne di fango. 

Siamo nella regione di Loliondo, a cinque ore di macchina a nord da Arusha. La zona confina a nord con la Riserva nazionale del Masai Mara, a sud con la Ngorongoro Conservation Area e ad ovest con il Parco nazionale del Serengeti. Per anni Liolondo è stato sinonimo del braccio di ferro tra la comunità di seminomadi Masai, le autorità tanzaniane e la Otterlo Business Corporation, una società degli Emirati Arabi Uniti desiderosa di trasformare l’area di nove villaggi in riserva naturale per la caccia commerciale. L’accordo, stipulato nel 1992 ad Arusha, secondo alcune fonti sarebbe consistito nella cessione del parco in cambio di milioni di dollari destinati alle forze armate della Tanzania. Alla fine del 2017, il governo tanzaniano, sotto la guida dell’allora presidente John Magufuli, ha posto termine all’accordo con la società emiratina. Sono state aperte indagini su sospette tangenti ed episodi di corruzione, anche a livello ministeriale. Nonostante questa vittoria, i problemi non sono finiti.

Sgomberi e minacce

Per favorire il turismo dei safari, ma anche quello super-elitario della caccia grossa, il governo tanzaniano ha espulso migliaia di indigeni dalle loro terre ancestrali. Oggi vivono relegati ai margini di riserve e parchi, in spazi che sempre più assomigliano a prigioni a cielo aperto. Capanne fatte a mano sono l’unico rifugio di questo antico e fiero popolo che per tradizione segue una vita a sé, con le proprie regole, e che ha un forte legame con la propria terra. Le ricadute del turismo per i Masai nei parchi non sono abbastanza per rappresentare un’alternativa, che di fatto non esiste.

Non sono mancati episodi di violenza, intimidazioni, arresti. Accuse di presunti danni ambientali da parte dei Masai sono state usate come pretesto per gli sgomberi e gli espropri di terre da parte del governo. Più di 2 milioni di animali migrano attraverso il Loliondo in un anno e, sebbene i Masai caccino oramai raramente, sono stati accusati di danneggiare gli ecosistemi animali e questo, nonostante il riconoscimento dei loro diritti alla terra ai sensi delle leggi tanzaniane e internazionali sui diritti umani. Quasi nessuno, però, tra i Masai, è in grado di districarsi tra i meandri dei testi giuridici e di difendere i propri diritti.

Problema globale 

Il caso dei Masai della Tanzania non è isolato. Nascosta dietro una facciata conservazionista, è in atto una colonizzazione della natura a discapito dei diritti umani. Alcuni studi stimano che nel solo continente africano siano già state derubate delle loro terre per la creazione di Aree Protette oltre 14 milioni di persone. «Lo sfratto dei popoli indigeni operato nel nome della conservazione sta diventando sempre più un problema mondiale e potrebbe addirittura rivelarsi come il più grande accaparramento di terra della storia, se dovesse essere approvato il piano, sostenuto dalle grandi organizzazioni della conservazione, di trasformare il 30% della Terra in Aree Protette entro il 2030», denuncia il movimento mondiale per i popoli indigeni Survival International.

Fiore Longo, ricercatrice dell’ong, in un’intervista ad Africa afferma che le cosiddette “soluzioni basate sulla natura”, che si riferiscono all’utilizzo di meccanismi come piantare alberi, ripristinare ecosistemi e preservare foreste allo scopo di assorbire anidride carbonica dall’atmosfera, in realtà non contrastano la crisi climatica perché le sue apparentemente facili soluzioni non implicano una riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili, vera risposta concreta. Non solo. «Oltre a non avere basi scientifiche, rischia anche di avere un impatto devastante su oltre 300 milioni di persone, molte delle quali sono membri delle comunità più vulnerabili e rispettose dell’ambiente. Come riconosciuto anche dallo studio globale Ipbes (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), le Aree Protette esistenti «non sono ancora gestite efficacemente ed equamente», mentre è necessario porre l’attenzione sulle terre indigene perché, come ormai dimostrano sempre più studi scientifici, questi popoli sono i migliori custodi dell’ambiente.


Riserve-fortezza
A inizio settembre, oltre 30 attivisti, esperti e scienziati (indigeni e non indigeni) da circa 18 Paesi si sono riuniti a Marsiglia nel contro-congresso “Our Land, Our Nature” per condividere prove e testimonianze dirette dei furti di terre e dei crimini compiuti nel nome della conservazione, e proporre un modello di conservazione alternativo. Dal Kenya, il conservazionista Mordecai Ogada – autore, assieme a John Mbaria, del libro The Big Conservation Lie [La grande bugia della conservazione] – ha fatto notare quanto la stessa definizione del concetto di “area protetta” da parte dell’Unione nazionale per la conservazione della natura lasci spazio a interpretazioni e a possibili derive.

Dire che un’area protetta è «un’area delimitata, dedicata e gestita, secondo mezzi legali “o altri mezzi effettivi”», senza che sia ben chiaro quali siano tali mezzi, apre la porta a possibili violazioni dei diritti dei popoli indigeni. «Gli strumenti per la protezione della natura sono davvero molto scarsi. Innanzitutto, proteggere la natura da che cosa, da chi? La risposta è: dagli occupanti originali», ha sottolineato Ogada, denunciando inoltre che l’approccio del conservazionismo registrato in Africa è ben diverso dall’ideologia nel cosiddetto mondo occidentale. In Africa non fa rima con i concetti di verde, inclusivo, pacifico, o proletario. Nel Grande Sud, come in Africa, «abbiamo a che fare con un approccio militarizzato, violento, oppressivo, e spesso razzista». E ancora oggi rimane in piedi il modello della conservazione-fortezza, fondato su principi coloniali, che ha ispirato la creazione dei primi parchi nazionali negli Stati Uniti nel XIX secolo, fino a diventare il paradigma dominante in Africa e in Asia.

Ripensare la conservazione

Ecologo specializzato in carnivori e studioso di conservazione della natura, Mordecai invita a «ripensare i tipi di aree protette esistenti e a cercare un modello più sofisticato di protezione della biodiversità. È qui che le grandi organizzazioni si trovano in difficoltà, perché fanno molta fatica a cambiare le loro stesse sovrastrutture». Al centro degli sforzi di conservazione «ci devono essere i diritti territoriali dei popoli indigeni, non la creazione di altre Aree Protette», hanno sottolineato a Marsiglia i partecipanti, che a metà ottobre hanno diffuso un manifesto per arrestarne la creazione nel nome di una vera giustizia sociale e climatica. I popoli indigeni conoscono e proteggono i loro territori meglio di chiunque altro, anche perché da essi dipende la loro sopravvivenza materiale, culturale e spirituale. «Non è un caso che l’80% della biodiversità mondiale si trovi proprio nelle loro terre, ed è provato che, quando i loro diritti territoriali sono garantiti, ottengono risultati di conservazione eccellenti, spesso superiori a quelli delle Aree Protette e a costi molto inferiori», afferma Survival nell’introduzione del rapporto 2021 I padroni della Terra della Focsiv.

«Non c’è meccanismo migliore di quello naturale, che consente alle comunità autoctone di rimanere sulle proprie terre ancestrali. È questa la strategia vincente per la protezione della natura», afferma Fiore Longo, raggiunta telefonicamente a Parigi, dov’è anche direttrice di Survival International France.

Esempi virtuosi 

L’antropologa cita l’esempio emblematico del popolo Soliga, nello Stato meridionale indiano del Karnataka, che, dopo aver vinto la battaglia per il riconoscimento del diritto collettivo alla propria terra, è potuto rimanere all’interno della riserva delle tigri di Biligiri Rangaswamy Temple. «Questo ha consentito di farne l’unica riserva dove la popolazione di tigri è raddoppiata», spiega la ricercatrice. I Soliga hanno un rapporto molto sviluppato con il loro ambiente naturale e venerano la tigre.

In Perù, un team di ricercatori ha trovato che la strategia contro la deforestazione e il degrado ambientale era migliore, mediamente, nei territori concessi agli indigeni che nelle aree protette statali. Stessa conclusione per una ricerca congiunta Fao-Filac (Fondo per lo sviluppo dei popoli indigeni dell’America latina e dei Caraibi), resa nota nel marzo 2021. Lo studio afferma che i tassi di deforestazione sono significativamente più bassi nei territori indigeni e tribali dove i governi hanno formalmente riconosciuto i diritti collettivi alla terra.

Il rapporto Forest Governance by Indigenous and Tribal Peoples, basato sulla revisione di oltre 300 studi pubblicati negli ultimi due decenni, rivela per la prima volta in che misura i popoli indigeni e tribali dell’America Latina e dei Caraibi siano i migliori guardiani delle loro foreste rispetto ai responsabili delle altre foreste della regione. I migliori risultati sono stati osservati nei territori indigeni nei territori indigeni che si sono visti riconoscere titoli legali collettivi sulle loro terre: tra il 2000 e il 2012, i tassi di deforestazione in questi territori dell’Amazzonia boliviana, brasiliana e colombiana sono stati solo da metà a un terzo di quelli di altre foreste con simili caratteristiche ecologiche. «Quasi la metà (45%) delle foreste intatte nel bacino amazzonico si trova in territori indigeni», ha affermato Myrna Cunningham, presidente di Filac. «L’evidenza del loro ruolo vitale nella protezione delle foreste è cristallina: mentre l’area di foresta intatta è diminuita solo del 4,9& tra il 2000 e il 2016 nelle aree indigene della regione, nelle aree non indigene è diminuita dell’11,2%». Chi ha a cuore la conservazione di fauna e flora in Africa dovrebbe riflettere su queste esperienze. L’alternativa al modello portato avanti finora nel continente esiste, e prevede la partecipazione attiva delle popolazioni indigene nelle politiche di preservazione del patrimonio naturale.

Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l‘e-shop.

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