La foto più bella – editoriale Africa n°3-2017

di AFRICA
La foto più bella – editoriale Africa n°3-2017

di Marco Trovato

L’Homo turisticus gira l’Africa armato di macchine fotografiche. Ostenta attrezzature costose e spesso ingombranti che lo rendono riconoscibile ovunque. Dispone di un arsenale di zoom grossi come cannoni. Scarica all’impazzata raffiche di scatti. Va a caccia di valorosi guerrieri con le lance, silhouette di acacie al tramonto, frotte di bimbi scalzi… Immagini intrise di esotismo o di pietismo. Un tempo, l’Homo turisticus riempiva il bagaglio di rullini. Oggi si porta appresso manciate di memory card. L’evoluzione tecnologica ha compattato le tradizionali reflex. Si scatta sempre più spesso con lo smartphone e con un tap si condivide in un attimo la foto con il resto del mondo. In futuro, ci dicono, l’obiettivo sarà incorporato in lenti a contatto che trasformeranno i nostri occhi in dispositivi hi-tech in grado di catturare immagini digitali. Basterà fare l’occhiolino per azionare lo zoom e sbattere le palpebre per scattare una fotografia.

«Da piccolo, pensavo che gli europei avessero la macchina fotografica incorporata nel collo», mi ha confidato un vecchio senegalese. «Tutti i bianchi ne avevano una, e non se ne staccavano mai. Credevo fosse una sorta di protuberanza del corpo. Forse un frutto dell’evoluzione». Nel 2050, con l’avvento degli occhi bionici e le prevedibili sventagliate di battiti di ciglia, alcuni africani penseranno che tutti gli occidentali soffrano di fastidiosi tic nervosi. Cambieranno senz’altro i dispositivi per fotografare, ma quel che dovrebbe cambiare è il nostro modo di guardare. Ancora oggi l’industria del turismo invita a scoprire “terre selvagge e incontaminate, abitate da popolazioni isolate che hanno conservato usi e costumi invariati da secoli”. Miriadi di viaggiatori partono alla ricerca dell’ultima emozionante frontiera d’Africa. E vogliono portarsi a casa, come souvenir, i cliché di un mondo tribale, primordiale, indifferente allo scorrere del tempo. Un mondo “tipicamente” africano.

Ignorano, anzi, escludono dall’inquadratura, quanto abbia a che fare con la modernità e la globalizzazione. Chiedono al Tuareg in posa tra le dune di nascondere sotto la tunica l’orologio con navigatore gps. Invitano il Masai in mezzo alla savana a mollare il suo cellulare per impugnare lo scudo da guerriero. Le foto che ne escono sono tutt’altro che autentiche e spontanee, ma fanno il loro effetto… centrano l’obiettivo: riaffermare e consolidare il déjà vu dell’Africa e delle sue genti. Non lo fanno solo i turisti ma anche (e con maggiori responsabilità) giornalisti e fotoreporter. Per lavoro faccio anch’io fotografie, anche se non sono un professionista né un fanatico dell’obiettivo. Le immagini migliori che ho realizzato sono quelle in cui i soggetti ritratti si erano dimenticati della mia presenza. Li ho immortalati nella loro naturalezza dopo aver trascorso del tempo con loro ed essermi conquistato con pazienza la loro fiducia e, talvolta, amicizia. Ma le mie fotografie a cui sono più legato, ancora oggi capaci di emozionarmi, sono quelle che ho deciso di non scattare. E che sono rimaste impresse nei miei occhi.

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