La Brexit sarà imitata in Africa? Forse no, ma…

di Enrico Casale
la bandiera dell'unione africana
Il quartier generale dell'Unione Africana ad Addis Abeba in Etiopia

Il quartier generale dell’Unione Africana ad Addis Abeba in Etiopia

La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea sancita da un referendum che si è tenuto giovedì 23 giugno, ha messo in evidenza la crescente disaffezione di alcuni Paesi verso le istituzioni sovranazionali. Una disaffezione che ha assunto la veste di un populismo crescente, xenofobo e intollerante, al quale si sono affidati cittadini sempre più critici verso una struttura burocratica europea giudicata inefficiente, farraginosa e legata agli interessi della grande finanza. Il fenomeno si sta acuendo e rischia, gradualmente, di portare allo sfaldamento di una struttura politico-economica che, nonostante molti difetti e incongruenze, ha aiutato l’Europa a integrarsi, svilupparsi e crescere.

Lo stesso fenomeno si sta verificando in Africa? Anche nel continente africano si sta assistendo a simili spinte populiste e xenofobe? In Africa la situazione è diversa. Nel 1963 è nata l’Organizzazione per l’unità africana. Da subito l’istituzione panafricana si è rivelata debole, incapace di avere un ruolo efficace nella risoluzione delle crisi politiche interne, dell’integrazione continentale e dello sviluppo economico attraverso un mercato comune. L’Oua è rimasta vittima dei regimi dittatoriali che, per anni, hanno governato gran parte del continente, ma anche delle scarsissime risorse a disposizione. Nel 2002 è stata sostituita dall’Unione africana (Ua). I difetti dell’Oua, in parte, si sono replicati nella nuova struttura, anche se l’Ua ha dimostrato un maggior dinamismo. Nonostante la scarsità di fondi, ha dato vita a forze multinazionali che sono intervenute in crisi politico-militari di rilievo. Pensiamo, tra le altre, a quelle in Somalia, Centrafrica e Sudan (Darfur). Recentemente l’Ua ha cominciato anche a occuparsi della difesa dei diritti umani. Il processo, istruito in Senegal col sostegno dell’Unione africana, che ha portato alla condanna dell’ex dittatore ciadiano Hissène Habré, è un ottimo esempio dei passi avanti che il continente sta facendo.
Attualmente però non sono previsti casi della portata della Brexit. Anzitutto perché nessun Paese ha aderito all’istituzione panafricana con lo scetticismo che i britannici hanno sempre dimostrato nei confronti dell’Unione europea. In secondo luogo, perché l’Unione africana non ha ancora quel grado di integrazione che caratterizza l’Unione europea. Una qualsiasi uscita non avrebbe quindi conseguenze così importanti come quella di Londra dall’Ue.

In Africa, invece, sono frequenti le rivendicazioni secessioniste. Gli Stati africani sono costruzioni artificiali costruite sugli ex domini coloniali. Nei singoli Paesi convivono popolazioni con storie, culture, fedi e lingue molto diverse tra loro. Pensiamo a nazioni come la Nigeria nella quale al Nord vivono popolazioni musulmane di origine saheliana e al Sud popolazioni cristiano-animiste di origine subsahariana. Lo stesso discorso vale per il Ciad, il Sudan, il Mali. Ma si potrebbe continuare con il Kenya, la Tanzania, l’Etiopia, la Rd Congo, ecc.

Manifesto che promuove l'Unione Africana

Manifesto che promuove l’Unione Africana

I leader indipendentisti scelsero di mantenere intatta questi Stati disegnati sulla carta per convenienza e per l’impossibilità di ricostruire da zero il mosaico nazionale africano. Col tempo però stanno emergendo alcune crepe. Le indipendenze dell’Eritrea e del Sud Sudan sono significative in questo senso. Ma prossimamente potremmo assistere ad altre secessioni. Sono annose le dispute territoriali che vedono opposti il Marocco e il popolo saharawi, i djola della Casamance al Governo senegalese, gli anglofoni del Nord Camerun ai francofoni del Sud, gli abitanti dell’enclave di Cabida all’Angola, gli isolani di Zanzibar alla Tanzania continentale, gli oromo all’Etiopia. Questi sono alcuni esempi, potremmo citarne altri. Recentemente uno studio di Limes ha calcolato che, senza il colonialismo, oggi l’Africa avrebbe più di 100 Stati contro i 54 attuali. Si apre quindi una nuova stagione di indipendenze? Probabilmente no, ma forse l’assetto politico del continente è destinato a cambiare.

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