Kossi Komla-Ebri: «Diffidenza? Ai pazienti parlo brianzolo»

di Enrico Casale
Kossi Komla-Ebri

«Quello fra medico e paziente è un rapporto di fiducia. È giusto che un paziente possa scegliere il medico che preferisce e gli dà sicurezza. Se però un paziente dice: “Non voglio quel medico perché è negro”, allora ci troviamo di fronte al razzismo. E il razzismo non è un’opinione, ma un reato». Kossi Komla-Ebri, 64 anni, medico e intellettuale togolese, è in Italia da 44 anni. Qui ha studiato, qui lavora e qui ha scritto brani che con ironia hanno dissacrato l’intolleranza. Il suo giudizio sul paziente che nell’ambulatorio della guardia medica di Cantù (Co) ha rifiutato le cure del medico camerunese Andi Nganso chiamandolo «negro», è chiaro.

Secondo il dottor Komla-Ebri il razzismo va punito: «Se mi fossi trovato al posto del collega, mi sarei fatto dare il nome del paziente e lo avrei denunciato. Casi come questi non vanno assolutamente lasciati cadere nel nulla. Lavoro a Erba (Co), nel “profondo Nord”, conosco bene le persone che mi vivono intorno. E so che questi razzisti sono solitamente molto attaccati al portafoglio. Quindi una bella richiesta di risarcimento dei danni morali fa loro più effetto che un bel discorso».

Ferma la condanna per il razzismo, il dottor Komla-Ebri sa che un medico africano può comunque suscitare diffidenza, soprattutto nelle persone anziane. «In questo caso la razza non c’entra nulla – osserva – qui c’è la paura di non essere capiti, di non poter comunicare. Ma io ho trovato un rimedio efficace. Quando entra un anziano in ambulatorio attacco sempre il discorso in dialetto: “setas giò, sa ghe…”. Un africano che parla brianzolo? I pazienti strabuzzano gli occhi e si siedono con un sorriso. Si rompe la barriera comunicativa e tutto diventa più facile».

Il dottor Komla-Ebri non ha mai dovuto far fronte a episodi di vero razzismo: «Razzismo? No, mai. Anzi, il contrario. Ho pazienti che vengono in ambulatorio e, se non mi trovano, se ne vanno. Un paziente, mi telefonava addirittura a casa per sapere quando ero in ospedale e poteva farsi visitare da me. Gli ho risposto: “Va bene l’attaccamento, ma dopo l’orario di lavoro vorrei riposarmi. Anch’io mi stanco…”».

Un po’ di diffidenza l’ha avvertita solo quando era ancora studente. Ma lo racconta sorridendo: «Avevo deciso di specializzarmi in ginecologia. Quando mi sono presentato al primo corso, il primario mi ha squadrato e mi ha detto: “Ti consiglieri di lasciare stare. Temo che le donne si possano spaventare”. Lo guardai tra l’incredulo e il divertito. Poi decisi di cambiare branca. È così sono diventato chirurgo».

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