Kenya: i mungiki, il volto violento delle elezioni

di Enrico Casale
kibera scontri post elettorali

di Marco Simoncelli
Nairobi

«Lì ho visti con i miei occhi. Erano mungiki! Conosciamo tutti i poliziotti che lavorano in questo quartiere e quelli non erano poliziotti. Uno di loro è caduto correndo e ha perso l’emetto. Sotto aveva i dreadlocks. Non era un agente. Erano molto violenti e alcuni anche ubriachi. Anche altra gente ha notato uomini in tuta mimetica con quelle capigliature. Un soldato non può avere capelli del genere…».

A parlare è Justin, un autista di boda boda (mototaxi) che abita a Kibera, uno degli slum più popolosi di Nairobi. Si riferisce agli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine che sono esplosi dopo che i risultati delle elezioni generali keniane dell’8 agosto in cui Uhuru Kenyatta è stato riconfermato presidente, non sono stati riconosciuti dalla coalizione d’opposizione Nasa. Il suo leader Raila Odinga ha denunciato l’hackeraggio del sistema informatico di conteggio dei voti e la manipolazione di documenti elettorali e proprio ieri dopo una lunga attesa ha annunciato che presenterà ricorso alla Corte Suprema per annullare il voto.

In un’atmosfera già tesa è bastato poco per far esplodere focolai di protesta nelle roccaforti dell’opposizione: nella città di Kisumu, nelle contee di Siaya, Homa Bay e Migori, e a Nairobi negli slum di Mathare, Kibera, Korogocho e Kawangware. La repressione della polizia ha isolato rapidamente le rivolte attraverso un uso della forza sproporzionato che si dice avrebbe portato a molteplici violazioni dei diritti umani oltre che a numerose vittime. È ancora difficile fornire un numero certo, ma secondo l’Ong Kenya National Commission on Human Rights (Knchr) in tutto il Paese dal giorno del voto i morti sarebbero 24 di cui 17 a Nairobi e una bambina di 9 anni. La Croce Rossa keniana afferma di aver soccorso almeno 93 feriti.

Anche se la polizia nega e si giustifica asserendo di aver risposto adeguatamente ad «atti di vandalismo e criminalità», negli ultimi giorni si sono susseguite le condanne di varie Ong come la già citata Knchr, l’AfriCOG, Transparency International e Amnesty International. Le testimonianze raccolte anche da «Africa» nelle baraccopoli di Nairobi parlano di utilizzo di armi da fuoco con proiettili veri sparati ad altezza uomo, lancio di lacrimogeni all’interno di abitazioni ed edifici, percosse su persone disarmate, trascinate fuori dalle case e della sparizione dei corpi di molte vittime che sarebbero stati portati via all’interno di sacchi e fatti sparire.

«Le vittime sono molte di più di quelle che pensate – afferma David, un cuoco che vive nello slum di Kawangwane – , i poliziotti si portano via i cadaveri. Qui lo sanno tutti che ci sono stati tre morti, ma nessuno ha sporto denuncia. D’altronde a chi ti rivolgi? Ai poliziotti? E poi molti erano mungiki, con quelli non si scherza».

Anche in questa, come in numerose altre testimonianze raccolte in diversi slum, riappare il nome «mungiki». Si tratta di una setta politico-religiosa vicina all’etnia kikuyu che rifiuta l’occidentalizzazione e il colonialismo le cuoi origini vengono fatte risalire ai combattenti mau mau che si batterono contro i britannici. Nel corso del tempo ha assunto le sembianze di un’organizzazione criminale e si è spostata nelle baraccopoli di Nairobi dove attualmente gestisce traffici di droga, prostituzione e il racket, ma anche attività lucrative come la gestione dei matatu (minibus privati), i rifiuti nelle discariche, la gestione dei bagni pubblici e servizi di protezione negli slum. Gli affiliati, che storicamente erano identificati con i sopracitati dreadlocks, devono superare prove violente e subire riti magici per entrare in una delle numerose piccole gang di strada che ne fa parte.

Per anni il gruppo aveva reso meno evidente la sua presenza, ma di recente si è parlato della sua firma dietro ad alcuni crimini importanti, tra cui il recente omicidio del membro della commissione elettorale Chris Msando, torturato e ucciso poco prima del voto. Molti credono che i mungiki siano vicini ad alcuni membri delle istituzioni che li assolderebbero per fare «il lavoro sporco» come nel caso dei recenti scontri elettorali. Insinuazioni non del tutto inverosimili se si pensa che il potere politico-economico in Kenya è da sempre in mano ai kikuyu (etnia dello stesso Kenyatta). Il leader storico della setta, Maina Njenga, è in politica ed è stato eletto perfino parlamentare.

Al di là della presenza dei Mungiki o meno nelle proteste, di sicuro alle istituzioni keniane non piace che si indaghi. Due giorni fa due Ong che lo hanno fatto, Khrc e AfriCOG, sono state eliminate dal registro del Kenya’s NGo Regulator accusate di violazioni burocratiche e fiscali. Una chiara intimidazione.

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