Il matrimonio di piacere, di Tahar Ben Jelloun

di AFRICA
Il matrimonio di piacere, di Tahar Ben Jelloun

La «linea del colore» – quella che William E.B. Du Bois prediceva nel 1900 destinata a essere la «questione centrale del XX secolo» – è al centro dell’ultimo romanzo di Tahar Ben Jelloun, tempestivamente edito in italiano. Questa volta, però, non siamo negli Usa o in Europa bensì in Marocco, terra dell’autore. «C’era una volta nella città di Fès», comincia il romanzo. Come una favola. E in parte lo è, ma per divenire via via sempre più realistica, fino all’attualità dei giorni nostri. Il «matrimonio di Mut’a», reso come «di piacere», è una pratica prevista dall’islam per gli uomini che trascorrono lunghi periodi lontano da casa: perché non frequentino prostitute, possono contrarre un “matrimonio” temporaneo con una donna, cui restare fedeli per il tempo stabilito. Amir è un mite commerciante di spezie cinquantenne, sposato e con quattro figli (di cui uno down, con un ruolo tutt’altro che marginale nel libro), che per le forniture per la sua bottega si reca un paio di mesi all’anno a Dakar. Qui incontra la giovane e scultorea Nabou, che dopo alcuni anni egli decide di portarsi a casa come vera seconda moglie. Immaginabile l’impatto del ritorno a casa, dove alla gelosia (da parte della prima moglie, peraltro frutto di un matrimonio combinato) si somma una discriminazione pesante ed esplicita (anche a Fès, annota l’autore, non ci si ritiene razzisti, ma è il nero che è il colore del male…). Da notare anche la voluta incertezza, da parte del Ben Jelloun narrante, nel considerare il Marocco come appartenente o meno all’Africa (quando Amir parte per il Senegal, va «in Africa»; d’altra parte assicura al figlio Karim che anche lui è africano benché bianco).

Siamo nei primi anni Cinquanta, ma la questione della linea del colore non tenderà affatto a sfumare. La nuova coppia avrà due gemelli, non «caffelatte» come ci si aspettava ma l’uno bianco e l’altro nero. Quest’ultimo, costantemente indotto a interrogarsi sulla sua identità, avrà a sua volta un figlio nero come lui, che gli eventi accomuneranno all’ondata di “africani” che ormai si abbatte sul Marocco, terra di transito per Ceuta e da qui in Europa.

Ben Jelloun ha scelto un percorso che sorprenderà il lettore, oltre che per la trama, anche per le mutazioni di registro e per la denuncia dell’atavico razzismo – suo tema prediletto – nel Maghreb nonché per le… punture di spillo sulle derive dell’islam. Se un appunto si può fare, è che alcuni giudizi sembrano più voce dello scrittore che dei personaggi (oltre a un anacronismo: nei primi anni Cinquanta non si parlava ancora di «trisomia» per la sindrome di Down).

Nota a margine: l’«Amine» della dedica del libro è il nome del figlio con sindrome di Down di Tahar Ben Jelloun. Un segno di quanto quest’ultima sua fatica debba essere particolarmente cara all’autore.

Infine, dopo il fortunato Il razzismo spiegato a mia figlia e L’Islam spiegato ai nostri figli (Bompiani), attendiamo di leggere in italiano anche come lo scrittore marocchino abbia spiegato ai nostri figli il terrorismo («È stato più difficile che scrivere un romanzo», ha dichiarato).

La nave di Teseo, 2016, pp. 231, € 18,00

(Pier Maria Mazzola)

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